Ci sono piazze il cui significato trascende la ragione per cui si sono riempite di manifestanti. Piazze diverse e distanti – da Tel Aviv a Parigi, passando per Berlino – non riconducibili a una comune matrice ma che pure pongono un comune problema alle democrazie. Non agli altri, perché in Russia, in Corea del Nord, in Iran non si può manifestare e se lo si fa si finisce ammazzati o deportati. In Israele il governo ha fatto un passo indietro, in Francia s’invita il presidente a negoziare, a Berlino s’attende di capire se resteranno immobili. Prima o dopo anche le nostre piazze torneranno a farsi sentire. E non sono le forze politiche a riempirle, semmai provano a inseguirle. Che peso e ruolo hanno le piazze, in una realtà post ideologica?
Le piazze non sono il “popolo”, come pretendono. Ne sono una parte. Le piazze che manifestano contro i governi si oppongono al responso elettorale, cui tutti i cittadini hanno libero accesso. Nelle democrazie governa chi conquista la maggioranza degli eletti (che non è affatto detto sia la maggioranza dei voti) oppure riesce a coalizzare, dopo il voto, una maggioranza parlamentare. Ma, in democrazia, governare non è sinonimo di comandare. Ed è qui che la piazza trova il suo spazio, è qui che il gioco democratico deve dimostrare equilibrio.
Macron ha vinto le elezioni presidenziali dicendo chiaro e tondo che si sarebbe dovuto riformare il sistema pensionistico, lavorando più a lungo. È necessario e inevitabile. La maggioranza dei francesi lo ha scelto per l’Eliseo. Onorare il mandato significa alzare l’età pensionabile. Lo dicono in molti e in diversi Paesi: sono stato eletto per fare una cosa, ho il diritto e il dovere di farla. Ma nelle democrazie il consenso si conquista ogni giorno, la maggioranza parlamentare si può perderla ben prima delle elezioni (Macron la perse alle elezioni) e se succede il finimondo per appena due anni di posticipo pensionistico significa che la pentola bolliva per altre ragioni. E qui si giunge alla prima conclusione, che si vede a Tel Aviv come a Parigi: in democrazia governa la maggioranza elettorale, ma le istituzioni democratiche sono più importanti della maggioranza elettorale. Nel senso che quest’ultima non deve forzarle.
Non è una questione di buon costume, ma di sostanza. Sono convinto che le mie idee siano migliori di quelle dell’avversario e le mie soluzioni più utili al Paese, ma devo anche sapere che la cosa più importante è che le idee vincenti potrebbero essere domani diverse, quindi non è la presunta bontà di quello in cui credo che possa autorizzarmi a forzare l’equilibrio istituzionale. Netanyahu ci ha provato e il risultato si è visto.
I guai diventano ingestibili in due casi: quando si fronteggiano ideologie opposte e quando gareggiano faziosità vuote. Il primo caso lo vivemmo nel secolo scorso, diventando sempre più ricchi e liberi perché non facemmo mai vincere (dopo la guerra e la sua tragica esperienza) nessuna delle due ideologie. Il secondo lo viviamo oggi. Contro le proposte di Macron non ce ne sono di diverse, razionali, ma il ribellismo “anti”. Gran parte dei populismi nasce dalla critica alle promesse che gli altri non onorarono, ma prende voti grazie a promesse insensate e mirabolanti, che nel migliore dei casi saranno tradite.
Ed è la seconda conclusione: nessuno riesce a governare le democrazie se non pensandosi governante di tutti, non solo della propria parte. E i partiti servono ad avere una visione temporale che superi l’orizzonte del capetto momentaneo. Il che sì, porta a mediare continuamente, tenendo anche un occhio alla piazza, che non è sovversiva proprio perché dentro un sistema di approssimazioni e non di presunte perfezioni. E quando la piazza diventa anti sistema, se anziché reclamare inizia a sfasciare, ove la politica di governo non se la sia fatta sotto dalla spiegazione si passa alla repressione.
Quando la democrazia funziona spiazza estremismi e personalismi. Quando ne resta prigioniera s’ammala.