Il 32% degli italiani è convinto che l’attentato alle Torri gemelle sia stato organizzato dagli stessi americani, il 29% ritiene che la missione Apollo 11 fosse una fake news e che l’uomo non sia mai sbarcato sulla luna, il 17% considera “plausibile” che l’Olocausto non sia avvenuto, il 25% ritiene che i vaccini siano uno strumento per controllare i popoli attraverso il 5G (?), il 15% pensa che “probabilmente” la terra non sia sferica ma piatta… Questi, tra gli altri, i risultati di un recente sondaggio di Swg. Ce n’è abbastanza per tirare una conclusione tanto amara quanto liquidatoria: siamo circondati da coglioni ossessionati dai complotti, in media uno su quattro. C’è del vero, naturalmente, ma la questione è leggermente più complessa.
Il problema è che, come ha spiegato con inedita chiarezza ai primi del Novecento lo psicologo delle masse Gustave Le Bon, “la ragione crea la scienza, ma sono i sentimenti a guidare la storia”. E i sentimenti, da sempre più forti della ragione, possono indurci a confutare anche le più acclarate evidenze scientifiche e a rifugiarci nelle tutto sommato rassicuranti teorie del complotto. Rassicuranti perché aiutano a dare un ordine al caos, ad escludere il ruolo spesso determinante del caso, a confermare i nostri più radicati pregiudizi.
Nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali del 2004, gli psicologi Drew Westen, Stefan Haman e Clint Kilts selezionarono due gruppi di militanti politici, il primo composto da 15 democratici convinti, il secondo da altrettanti non meno convinti repubblicani. Collegarono ciascuno di loro ad una macchina che attraverso la risonanza magnetica ne verificava le reazioni cerebrali e gli sottoposero una serie di affermazioni in video del candidato repubblicano (George W. Bush) e di quello democratico (John Kerry), molte delle quali denunciavano evidenti contraddizioni. Come sospettavano, la stragrande maggioranza dei militanti democratici percepì nitidamente le contraddizioni di Bush, mentre non avvertì affatto quelle di Kerry. E viceversa. Questo per dire quanto contino i pregiudizi e quanto (poco) conti l’evidenza dei fatti. Dunque, quanto sia tutto sommato naturale avere un approccio complottista ai grandi accadimenti della Storia.
Osservò Umberto Eco che “la psicologia del complotto nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle”. Meglio, allora, inventarsi una realtà parallela. Meglio anche perché, proseguiva Eco, “l’interpretazione sospettosa ci assolve dalle nostre responsabilità” e, come ha osservato il politologo Angelo Panebianco, ci evita la fatica di cimentarci con la “complessità della storia”.
Un tempo, era la religione ad assolvere a questo disperato ed arciumano bisogno di spiegazioni ultime e trascendenti. Ma Dio è morto, e, come ammoniva il grande storico delle religioni Mircea Eliade, “l’alternativa alla religione non è il trionfo della Dea Ragione, ma della superstizione”. E vai, dunque, col terrapiattismo…
Il resto, è noto, lo fanno i social. I social dove, come lamentava Eco, ogni assurdità complottista trova oggi la propria rassicurante community. I social dove, come ha certificato il Mit di Boston, le notizie false si diffondo sei volte più velocemente delle notizie vere.
Ecco dunque sommariamente spiegato cosa si celi dietro gli allucinanti dati Swg. Ed ecco spiegato perché in politica trionfi la demagogia e fatichi ad affermarsi quell’approccio realista e competente tipico del metodo liberale.