Se si guardasse di più alla sostanza ci si accorgerebbe di essere meno divisi di quel che si racconta. Se ci si occupasse di più della sostanza ci si accorgerebbe che condividere gli obiettivi non impedisce di dividersi fra maggioranza e opposizione, ma spinge a farlo con attenzione alle scelte anziché alle sceneggiate. Eppure la sostanza viene accuratamente evitata. Perché è imbarazzante, comporta approfondimento e la si considera noiosa. Per addetti ai lavori. Mentre gli addetti ai livori sembrano non accorgersi che se cresce il numero di quelli che non vanno a votare è anche perché non si sentono votati a partecipare alla zuffa sul nulla.
Prendiamo debiti e investimenti, due temi da cui dipende il futuro. E prendiamo il governo attuale, guidato dalla sola forza che si oppose al precedente, nonché il citato precedente, che comprendeva le forze che oggi si oppongono. In questo modo sarà facile vedere che, almeno a parole, tutti condividono la necessità di far diminuire il peso percentuale del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Che è una condivisione estendibile a molti altri governi del recente passato, a prescindere dal loro esserci riusciti e dalla coerenza fra proclami e azioni. La sola eccezione è il governo Conte 1, che fece garrire la bandiera del fare più debito per mostrarsi più sovrani, così riuscendo a far una figura sovranamente di palta e doversi rimpiattare dietro illusionismi contabili.
Sul lato investimenti – che il bilancio pubblico italiano ha praticamente cancellato da decenni, con governi di diverso colore e uguale dedizione alla spesa corrente – il ministro Fitto ha detto in Parlamento due cose: a. il governo intende spendere tutti i fondi europei di cui si dispone;
b. le modifiche delle quali si parla non sono relative alle mete ma alle tappe.
Sommando le forze che sostenevano Draghi a quelle che sostengono Meloni, convergenti sul medesimo Pnrr, si totalizza l’unanimità sulle mete.
Lo scopo di quegli investimenti non è quello di rendere moderna e competitiva la produzione industriale italiana, perché lo è di già (interessanti le considerazioni del professor Marco Fortis, su “Il Sole 24 Ore” di ieri); lo scopo è sanare gli squilibri strutturali (scuola, sanità, digitale, mobilità, pubblica amministrazione) e territoriali (Nord-Sud, ma anche i diversi Nord e i diversi Sud). L’Italia produttiva corre che è una bellezza, difatti facciamo numeri importanti nelle esportazioni; ma c’è un’Italia a rimorchio, addormentata dall’assistenzialismo, che va svegliata e vitalizzata nella dignità del lavoro.
Condividere queste cose non è affatto poco. Mettiamoci anche la condivisione – sempre con lo stesso metodo di calcolo e al netto delle incoerenze – della scelta occidentale, atlantica, Nato, europea nonché a favore dell’Ucraina e il quadro diventa fin troppo confortante.
Dopo di che, ovviamente e giustamente, ci si divide. Ma perché la cosa abbia un senso sarebbe sano dividersi fra chi governa e pensa di far bene le cose a modo proprio e chi si oppone, tallona e critica chi governa perché non riesce a far le cose che si erano condivise. Ed è qui che casca l’asino. Dal governo giungono voci diverse e a ruota libera sui piani Pnrr e sui fondi Ngeu, mentre il ministro della Giustizia va da una parte e i decreti sulla giustizia dall’altra. Dall’opposizione non si capisce se sono per la legge concorrenza senza la deprimente manfrina sui balneari, se ritengono giuste le parole di Nordio, quindi attaccando per l’incoerenza e così via. Anziché discutere di come far crescere il Pil per far scendere il debito e del nuovo (ipotizzato) patto di stabilità, si apre la gara sciocca fra chi indica gli ‘schiaffi’ europei e chi millanta di battere i ‘pugni’. Così declassando la politica a rissa alticcia. Cui la metà degli italiani si rifiuta di partecipare, con tristi ragioni, mentre i partiti puntano a chi prende più voti nell’altra metà, con meste conseguenze. La sostanza sarà pure noiosa, ma questa roba è mefitica.