Con gli slogan sul referendum il Pd insegue l’antipolitica

Con gli slogan sul referendum  il Pd insegue l’antipolitica

Per Giovanni Belardelli, con un manifesto del Sì, il Partito democratico propone di ridurre il numero dei politici (non dei parlamentari). Entra così nella polemica anticasta.

C’è uno dei manifesti in favore del Sì al referendum costituzionale che forse non ha avuto l’attenzione che merita. Mi riferisco a quello con la scritta: «Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì». Come è evidente, con un manifesto del genere il Pd fa compiere un passo ulteriore alla polemica anticasta. Questa polemica, nonostante certi eccessi e la sua propensione a prendere spesso per oro colato qualunque avviso di garanzia, aveva avuto il merito di indirizzarsi contro i privilegi del ceto politico nonché contro i politici corrotti. Soltanto il Movimento 5 Stelle aveva ipotizzato di poter fare a meno in blocco dei politici.

Da qui tutti gli slogan e la retorica grillina sulle virtù democratiche della Rete, sui parlamentari come semplici «portavoce», addirittura l’idea — a suo tempo avanzata da Grillo — che una brava massaia sarebbe in grado di occuparsi del bilancio dello Stato. Ma da parte del M5S ora non si insiste troppo su tutto questo, per motivi abbastanza evidenti: perché la creazione di un direttorio ha contraddetto platealmente il tanto sbandierato principio «uno vale uno»; perché, non dirò una massaia, ma neppure una giovane avvocatessa sembra riuscire a raccapezzarsi nei problemi di Roma; perché — infine — il ruolo centrale acquisito dal figlio di Gianroberto Casaleggio ha addirittura riportato in auge un principio di ancien régime, quello dell’eredità personale delle cariche.

Invece, per quanto possa essere paradossale da parte del partito che ha il maggior numero di parlamentari, è il citato manifesto del Pd che sembra voler condurre la polemica antipolitica fino alle sue estreme conseguenze. Fino cioè a investire i politici in blocco, considerati alla stregua di una categoria inutile o dannosa; perché è questa la conclusione che si ricava dalla proposta di ridurre non i parlamentari ma «i politici».

È evidente a chiunque la ragione elettorale per cui si sfrutta un tema del genere. Che i governi lancino slogan, formulino proposte, facciano approvare leggi anche (e a volte soprattutto) allo scopo di vincere le elezioni potrà non piacerci, ma va realisticamente accettato come un dato fisiologico dei regimi democratici.

Distribuire un bonus ai diciottenni, resuscitare la proposta del ponte sullo Stretto di Messina, far balenare una riduzione dell’Irpef per il 2018, son tutte cose che hanno anche una finalità strumentale; ma hanno al contempo — che le si condivida o meno – delle ragioni a loro favore. Altra cosa è cavalcare il tema dell’antipolitica fino al punto da indurre a considerare negativamente i politici in quanto tali. Insomma, non tutti i mezzi dovrebbero essere impiegati per raggiungere il fine di vincere le elezioni. Bisognerebbe escludere quelli che, mirando a sconfiggere gli avversari, rischiano anche di danneggiare gravemente il terreno di gioco; vale a dire quel minimo di fiducia nella politica che ancora sopravvive.

Ma c’è un altro elemento che lascia perplessi: il fatto che la scelta di uno slogan contro i politici provenga proprio dal partito di Matteo Renzi, un leader che si era affacciato alla ribalta della politica nazionale — prima come aspirante segretario del suo partito, poi come capo del governo — come la personificazione di una idea forte della politica. Cos’altro stava a significare, infatti, il guanto di sfida sfrontatamente gettato in viso alla vecchia dirigenza ex comunista, se non una smisurata fiducia in quel che possa una leadership politica abile e determinata?

Per quanto la parola indubbiamente suonasse sgradevole, cos’altro stava a significare l’annunciata «rottamazione» se non la sostituzione del vecchio ceto dirigente del partito da parte di politici di nuova generazione, in senso anagrafico e non solo? Una legge come il Jobs act (che veniva dopo le interminabili discussioni e i veti sull’articolo 18), la stessa riforma costituzionale, quale che sia il giudizio che si voglia dare dell’una e dell’altra, testimoniavano appunto una grande fiducia nella politica. La rincorsa di certi slogan grillini sta forse a significare che quella fiducia col tempo si è appannata.

Giovanni Belardelli, Il Corriere della Sera 14 ottobre 2016

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