Pur se descritto come il primo dei populisti, non si ricordano suoi cedimenti alla demagogia antieuropeista. Non lo fece quand’era al governo e non lo fece neanche durante i lunghi e non facili anni trascorsi all’opposizione. In questo, Silvio Berlusconi ha dimostrato una serietà e un realismo che mal si conciliano con la retorica che lo ha descritto come un leader tutto furbizie, spettacolo e sondaggi. Ebbene, se, com’è naturale che sia, Giorgia Meloni vorrà davvero incassare l’eredità politica berlusconiana è questo il punto su cui non le saranno consentite deroghe. Il che, se avrà la capacità di porsi in un’ottica non politicistica ma storicistica e culturale, si rivelerà un obiettivo alla sua portata senza bisogno di particolari abiure o compromessi imbarazzanti. Vediamo perché.
Ciclicamente riaffiora nella polemica politica e sulle terze pagine dei giornali la contrapposizione quasi etica tra patriottismo nazionale e patriottismo europeo. Come se i due orizzonti fossero fisiologicamente alternativi e l’uno rappresentasse fatalmente la negazione dell’altro. Non è questo che pensavano i più autorevoli tra gli europeisti italiani. E se ci liberiamo dai pregiudizi non è questo che suggerisce la ragione politica. I fondatori dell’Europa sostennero infatti sin dagli anni Cinquanta quel che il realismo ci induce a credere oggi: che i due sentimenti, perché di questo si tratta, possono e debbono convivere. Sono complementari, rappresentano l’uno la forza e il giusto limite dell’altro.
Carlo Magno, Luigi XIV e Napoleone Bonaparte cercarono di unire l’Europa senza rispettare le diversità nazionali. Fu questo l’errore da cui discese la caducità dei loro successi militari e diplomatici. I padri dell’europeismo trassero lezione dalla Storia ed evitarono di incorrere nel medesimo sbaglio. Uno per tutti, Altiero Spinelli. L’estensore del Manifesto di Ventotene aveva ben chiaro che “l’amore della Patria è una delle forze elementari che più arricchiscono la vita dell’individuo, dandogli l’immediato senso di una comunità di destino con altri esseri umani” e perciò teorizzò la nascita di una “Federazione europea” fondata non sul mito illuministico della Dea Ragione, ma “sulle comunità nazionali” e sul loro naturale sentimento patriottico e terragno.
La lezione di Spinelli è stata recepita dalle Istitutzioni europee. La Carta dei diritti ufficializzata a Nizza nel 2000, infatti, all’articolo 22 sancisce il rispetto della “diversità culturale” e sin dal Preambolo chiarisce che lo sviluppo dei valori dell’Unione non può realizzarsi a discapito “delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa”. Si noti l’uso del plurale: non il popolo europeo, ma i popoli d’Europa. Concetto che Luigi Einaudi teorizzò già a fine Ottocento parlando di “Stati Uniti d’Europa”. Cioè di un’Europa fondata sulle diverse comunità nazionali e da queste indiscutibilmente arricchita. Del resto, come scrisse Benedetto Croce nella Storia d’Europa, “nazione è concetto spirituale e storico e perciò in divenire, e non naturalistico e immobile come quello di razza”.
Appare, dunque, oggi piuttosto chiaro che, nell’era della globalizzazione e dei revanchismi imperialistici, il divenire degli Stati nazionali europei sia l’europeismo. I due sentimenti non confliggono, si contemperano e rappresentano l’uno la salvezza dell’altro. A Giorgia Meloni conviene prenderne atto, e rifondare sulla duplice identità nazionale ed europea una destra che per governare non può pensare basti una manovra di avvicinamento iperpoliticista al Ppe. Servono (anche) una cultura e una retorica nuove. Così nuove da apparire vecchie come l’europeismo delle origini.