Il 27 luglio di cinquant’anni fa scomparve Raffele Mattioli, il più prestigioso banchiere italiano del Novecento (Luigi Einaudi lo fu come “banchiere centrale”, quale Governatore di Banca d’Italia). Mattioli fu al tempo stesso uomo di insigne cultura, “banchiere umanista”, tecnico di prim’ordine, attento utilizzatore delle nuove tecnologie, profondo conoscitore dei rischi dell’attività bancaria, come il rischio di liquidità, la cui sottostima fu una delle cause principali della grave crisi bancaria degli anni Trenta del secolo scorso.
Fu Giovanni Malagodi colui che conobbe meglio Mattioli e che ha lasciato un “Profilo di Raffaele Mattioli” dove compì anche una sintetica autobiografia dei suoi anni giovanili, ricordò il padre Olindo, di Cento (fra Ferrara e Bologna), prestigioso giornalista e banchiere, grande amico di Giovanni Giolitti col quale collaborò a scrivere le sue “Memorie” (Giovanni mi raccontò che lui, ventenne, ne corresse le bozze).
Per Malagodi, Mattioli era un «uomo multiforme», come «tutti constatavano giornalmente». In ognuna delle forme della sua attività era instancabile, le alternava, le approfondiva senza riposo.
C’era in lui una vera e propria incapacità all’ozio, per quanto elegante o mascherato. Fino all’estremo lesse, indagò e discusse. Amava citare il detto di Croce: «In ozio stupido la morte non ci può trovare». Malagodi approfondì innanzitutto i riferimenti culturali di Mattioli trovando in Benedetto Croce il suo punto di riferimento. Al banchiere Mattioli, Malagodi dedicò quasi una storia, in larga parte autobiografica, della Banca Commerciale Italiana, dalle sue difficoltà al suo salvataggio, negli anni Trenta, da parte della allora neocostituita IRI, ai difficilissimi anni della seconda guerra mondiale.
E, poi, i tragici eventi mesi dell’Italia divisa in due, quindi la ricostruzione dell’Italia postbellica, gli anni cinquanta. Malagodi ricordava in particolare l’imponente e continua opera di Mattioli nel campo della cultura con l’acquisto e lo sviluppo della Casa editrice Ricciardi, la fondazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, il contributo alla creazione della Fondazione Longhi di Firenze, le amicizie con innumerevoli uomini, da Cabiati, Einaudi e Sraffa nel campo economico a Pancrazi e a Schiaffini nel campo della critica, a Bacchelli nel campo della creazione letteraria e storica, e a tanti altri. Amicizia, per lui, voleva sempre dire scambio di idee, stimolo, apertura ai suggerimenti altrui.
Nell’ottobre 1934 Malagodi, su incarico di Mattioli, espose al Comitato della Direzione Centrale della Banca Commerciale Italiana il proprio rapporto per la riorganizzazione delle filiali italiane: Malagodi ridefiniva tutti gli aspetti del lavoro di filiale, nessuno escluso, con una metodologia e sistematicità che in superficie potrebbero apparire quasi non umane, ma erano frutto della sua nitida razionalità e del suo grande entusiasmo ed impegno nel lavoro.
Gli organi direttivi della Comit, guidati da Mattioli, approvarono subito il piano di Malagodi che implicava, dopo la grande crisi bancaria, anche un’opera di aggiornamento degli organici per compiti nettamente superiori rispetto a quelli precedenti. I questionari che Malagodi definiva per le strutture corrispondevano ai pilastri della riforma da lui ideata assieme a Mattioli: serietà, capacità di collaborare, senso di iniziativa e di responsabilità da un lato, e dall’altro conoscenze tecniche sui vari settori bancari. Per Mattioli, Malagodi realizzò anche il famoso “modulo 253” che fu scritto da Giovanni in sole ventiquattro ore e rappresentò la base della riorganizzazione bancaria italiana comprendente, come Malagodi stesso scrisse, «un’esposizione sistematica di come si debba studiare un credito ordinario e determinarne la validità, la liquidità e la redditività per la banca che lo concede».