I dati che abbiamo esaminato ieri non sono allarmanti in sé, ma hanno un aspetto sinistro: l’economia europea rallenta il ritmo di crescita, ma è previsto che l’anno prossimo torni ad accelerare, mentre l’Italia rallenta e c’è il timore che l’anno prossimo continui a rallentare. Spiegare la diminuita produzione industriale con la recessione in cui ora si trova la Germania – che influisce – toglie argomenti per spiegare perché l’economia tedesca si prevede corra nel 2024, mentre la nostra assai meno. Le cause sono interne e riguardano il mercato, la concorrenza, l’amministrazione pubblica, la giustizia, la scuola… Per fare le riforme e adottare i provvedimenti utili è necessario che il presidente del Consiglio abbia maggiori poteri o che sia eletto direttamente e indipendentemente dai partiti?
È fondato il timore che sia una discussione inutile, una perdita di tempo. La questione non è – come s’è singolarmente sostenuto – tenere in equilibrio i poteri del Presidente della Repubblica: al Quirinale abitava il papa, che era anche re, poi ha preso dimora il re e ora è la sede della nostra Presidenza. L’istituzione non appartiene a nessuno e il palazzo alla Repubblica. La questione è che il rafforzamento illusorio di un potere genera una pericolosissima fragilità, che anziché consolidarlo lo sbriciola.
Meloni non ha i pieni poteri – che nessuno ha mai, in uno Stato di diritto – ma è nella pienezza del suo potere: ha una maggioranza parlamentare assoluta in entrambi i rami del Parlamento e guida il partito che ha preso più del doppio dei voti degli alleati. Per giunta, complice l’ignoranza e la solo sventolata anglofobia, hanno preso tutti a chiamarla “premier”, che dà il segno della cecità istituzionale e il comico di volere introdurre il premierato in un Paese ove ci sarebbe già un premier. La vulnerabilità di Meloni – e non soltanto sua – non è nel dettato costituzionale, ma nel costume politico: chiamiamo maggioranza la somma delle minoranze che si alleano, salvo poi avere ciascuna il potere di distruggere la maggioranza. Se si cementificasse il capo del governo avremmo queste conseguenze: a. ai livelli attuali il maggiore potere sarebbe in capo a chi prende meno di un terzo dei voti espressi (che già sono pochi); b. poi, per governare veramente, o diventa trasformista il presidente o lo diventa chi lo sostiene o lo divengono entrambi. Sempre la solita zuppa.
Non è un caso che il capo del potere esecutivo non si elegga direttamente in nessuna democrazia, salvo Israele. Dove funziona male. Gli Usa sono uno Stato federale, in Francia si elegge il Presidente della Repubblica, in nessuna democrazia europea il capo del governo. Non si fa perché non funziona. Non consolida, irrigidisce. E le cose rigide si spezzano. La Repubblica è nata dopo una guerra civile, la cui radiazione fossile non è estinta e ancora inquina la vita collettiva.
La smania premierista nasce da una falsificazione storica, ovvero l’essersi raccontati che i governi italiani sono sempre stati tutti instabili e brevi. Falso. Dal 1948 al 1992 abbiamo avuto, nella sostanza, quattro governi: centrismo, centrosinistra, solidarietà nazionale e pentapartito. E i partiti di governo hanno sempre vinto le elezioni, senza trasformismo. Dal 1994 chi governa non vince mai le elezioni e impera il trasformismo. Vero che taluni governi duravano pochi mesi, ma in quello successivo tornavano gli stessi partiti e anche le stesse persone. Quel che conta è il costume: in Germania chi cambia idee e casacca è un inaffidabile, in Italia un furbo.
Eppure dei rafforzamenti sarebbero utili. Ad esempio: la possibilità di revocare i ministri, sottoponendo al voto di fiducia soltanto il neonominato; la non emendabilità dei decreti legge (così si eviterebbe l’imbarazzante sceneggiata del decreto sulle banche); la sfiducia costruttiva, ovvero dover indicare il nuovo esecutivo per far cadere il vecchio. Nulla a che vedere con quello che si chiama grossolanamente “premierato” o con la smargiassata impotente dell’elezione diretta.
La Ragione