Un punto

Un punto

Per un punto Martin perse la cappa. È divenuto un modo di dire popolare, a intendere che per un dettaglio si può perdere molto. Martino perse il priorato (XVI secolo) per avere collocato male la punteggiatura, sovvertendo il significato della frase, sicché la porta del convento anziché rimanere sempre aperta, non rifiutando l’ingresso a nessun onesto, sembrò dover restare chiusa, rifiutando l’ingresso specialmente agli onesti. Povero Martino. Ma poveri anche noi, perché un punto è lì a indicarci che stiamo perdendo fiumi di soldi e, con loro, anche la testa.

Il 16 ottobre scorso la Commissione europea ha raccolto i progetti di bilancio di ciascun Paese dell’Unione. Di quello italiano abbiamo scritto, mettendo in evidenza la fragilità di una riduzione minimale del peso del debito sul Prodotto interno lordo, a fronte di una previsione di crescita nel 2024 che appare assai ottimistica. Purtroppo il dibattito successivo non si è concentrato su quel decisivo aspetto, preferendo o l’illustrazione dei vari benefici – senza troppo badare né all’efficacia né alla sostenibilità – oppure gli aspetti politicisti, che mandano in sollucchero politici e commentatori che disdegnano il far di conto. Come ad esempio la bislacca storia degli emendamenti, che il governo intenderebbe interdire ai parlamentari della propria maggioranza (tanto non li può proibire, siamo certi che ne saranno presentati e se la risposta sarà un dissennato rifiuto del confronto parlamentare ciò potrebbe minare la maggioranza stessa). Tutta roba per dibattiti tanto alati quanto volatili.

Ma se si prendono i numeri presentati da ciascun Paese, pur con il beneficio d’inventario delle previsioni su sé stessi (come le nostre), un brivido corre lungo la schiena. Un punto percentuale dovrebbe inquietare e far suonare tutti gli allarmi. Invece nulla.

Colpisce il fatto che nel 2024 l’Italia dovrebbe essere, con la Finlandia, il Paese che cresce meno. Significativo, ma è anche vero che veniamo da tre anni in cui si è cresciuti più della media europea o comunque più di altri grandi Paesi, per non dire della Germania. Il guaio vero non è essere in coda alla crescita, che ci può pure stare, ma esserlo nel tempo in cui i soldi europei di Next Generation Eu, impiegati secondo il Pnrr – ovvero il Piano italiano d’investimenti (e riforme) – dovrebbero dare una spinta alla crescita. Ma questa roba pare abbia annoiato il pubblico e anche gli attori politici, come se “l’occasione irripetibile” sia divenuta “il fastidio trascurabile”. Il guaio aggiuntivo è che si è in fondo alla classifica con una previsione del +1,2%, che ben difficilmente raggiungeremo. E non si cominci a tirare in ballo le guerre, perché sono cose note e dette da prima.

Il punto di caduta è un altro: la Grecia spende nel 2023 il 3,3% della ricchezza prodotta per pagare il costo del debito, mentre conta di spenderne il 3,2% nel 2024; noi spendiamo quest’anno il 3,8% e contiamo di spenderne nel 2024 il 4,2%. Ma non basta, perché prevediamo di vedere crescere quel peso al 4,6% nel 2026. Si tratta di quasi 104 miliardi di euro spesi per la gioia d’essersi troppo indebitati. E non è vero che il costo cresce per le scelte operate dalla Banca centrale europea, che valgono per tutti e anche per la Grecia: cresce perché il debito non scende al ritmo previsto.

Lo spread è divenuto un totem mal interpretato. Se sale si dice che i mercati “bocciano il governo”, se scende che lo “promuovono”, e questa danza tribale la praticano gli uni e gli altri. Ma, appunto, sale e scende restando troppo alto. I 100 e più miliardi non scendono, ma salgono e basta. Quel punto di differenza con la Grecia è un buco nero scavato dall’irresponsabilità.

In un Paese assennato quello sarebbe il centro della preoccupazione, dell’attenzione e del dibattito, confrontando ricette diverse per rimediare. Qui gareggiano ricette diverse per fare più debito. Magari pensando che sia una specie di affermazione della sovranità, laddove ne è la tomba.

La Ragione

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