L’agonia è stata lunga e dolorosa, ora siamo all’epilogo. Ci saranno sussulti giudiziari, ma più indirizzati a salvare i propri soldi che non a salvare un’azienda oramai depredata e spezzata. Sebbene in negativo, questa è una storia istruttiva, perché un grande patrimonio italiano è stato distrutto a cura degli italiani. Quanti temono l’assalto dei “capitali stranieri” possono qui osservare gli effetti nefandi degli assalti italiani senza capitali.
Nel 1999 Telecom Italia era il sesto operatore globale delle telecomunicazioni, fatturava 27 miliardi all’anno e aveva un debito di 8 miliardi, basso. Era stata costruita grazie all’intervento pubblico (Iri-Stet) – quindi con i soldi dei contribuenti – e si manteneva grazie ai soldi dei clienti. Ergo sempre dei cittadini italiani, cui si aggiunsero i cittadini di quei Paesi in cui la fiorente multinazionale di allora era entrata. Eravamo noi i “capitali stranieri” capaci di fare conquiste. Ora fattura 15 miliardi l’anno e se ne porta sul groppone 21 di debiti. Un’enormità accumulata non facendo investimenti, ma caricando sulla società scalata i debiti contratti dagli scalatori del 1999. Quelli che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, chiamò «capitani coraggiosi» e che erano corsari con un’idea creativa delle regole del mercato, compreso il fatto che furono trovati a vendere (per farne scendere il prezzo) le azioni che affermavano di volere comprare.
Al momento della cessione al mercato delle azioni pubbliche si era stabilito che nessuno potesse avere più dell’1% delle azioni, ma al momento della scalata totalitaria si fece finta di non averlo mai detto. Questo è il bello di certe culture illiberali e nemiche del mercato: sono talmente convinte che il mercato sia predazione e sopraffazione che quando assistono ad azioni di quel tipo le pensano di mercato. Nella stagione in cui le regole europee aprivano, finalmente, alla concorrenza – quella in cui le tariffe sono scese moltissimo – anziché alla competizione ci si dedicò alla spoliazione.
Ora il Consiglio d’amministrazione ha deciso di vendere la rete – realizzata con i soldi degli italiani – in modo da diminuire l’indebitamento di 14 miliardi. Il socio di maggioranza relativa (i francesi di Vivendi, con il 23,7% delle azioni) si oppone e chiede l’intervento giudiziario. Ma lo sguardo di quel socio è rivolto ai soldi persi nell’investimento, non al futuro della rinominata Tim. E del resto, che passi l’idea di vendere la rete e tenere i servizi, piuttosto che quella di vendere i servizi per tenere la rete (ipotesi avanzata dal fondo Merlyn), comunque è un epilogo. Quel che allora ci capitò di denunciare e prevedere diventa purtroppo realtà.
Almeno si evitino ulteriori errori. Lo è il fatto che i soldi dei contribuenti continuino a essere usati per diventare soci dell’acquirente americano, Kkr. Lo Stato non deve puntare a fare il socio di minoranza, con il 20%, ma a esercitare controlli, a verificare che la rete sia sviluppata e non risistemata e rivenduta. Non ha senso volere essere soci quando i consiglieri d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti neanche prendono parte alla decisione di vendere. Non lo ha essere nell’azionariato di una società e della sua concorrente, come capita partecipando a Open Fiber, improvvidamente voluta dal governo Renzi, frutto di soldi Enel (ricordate le reti che dovevano passare dal contatore elettrico?) e poi sbolognata alla Cdp. E nemmeno stabilire che Kkr pagherà 2,5 miliardi in più se sarà fatta la fusione con Open Fiber, ovvero con i soci dei propri soci, subordinando il tutto al parere dell’Antitrust. Se si fosse ascoltato chi evidenziava il conflitto d’interessi non ci si troverebbe in queste condizioni.
L’interesse pubblico è portare i servizi della pubblica amministrazione in digitale e in Rete, nonché garantire portata e accesso a innovatori italiani che lavorano nei servizi. E per farlo non si deve essere soci, ma si deve essere lo Stato che non si è stati capaci di essere.
La Ragione