Domenica cadono i 150 anni dalla nascita di Luigi Einaudi. Nei mesi scorsi, il governo è stato generoso nel celebrare ricorrenze e anniversari. Ma il primo presidente della Repubblica eletto dal Parlamento non ha bisogno di targhe. A Einaudi forse piacerebbe, e al Paese gioverebbe, che un po’ di spirito «einaudiano» permeasse invece le politica pubbliche. Due esempi. Einaudi si batteva per togliere «qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole».
Il valore legale trae «in inganno i diplomati medesimi» e alimenta l’ossessione per il titolo di «dottore», uso «spagnolesco» buono per considerarsi a vicenda «cavalieri borghesi». Il privato il valore legale l’ha già abolito, sa bene che i laureati non sono tutti uguali.
La finzione regge solo nell’amministrazione pubblica, peggiorandone le prassi di reclutamento. Il valore legale non si supera con un tratto di penna, ma cambiando le procedure, evitando di inquadrare professioni e mestieri in schemi corporativi, riconoscendo nel modo più efficace i diplomi di altri Paesi. Al Quirinale, Einaudi riscrisse di suo pugno un bando di concorso per i dipendenti del suo segretario, per smussare come poteva il requisito della laurea.
Il Presidente avrebbe voluto che l’art. 41 della Costituzione stabilisse che «la legge non è strumento di formazione di monopoli economici». Norme e cultura sono strumenti alternativi: le une servono dove manca l’altra. Il centrodestra può abbracciare una cultura di governo in cui, se non altro, non si usi la legge per restringere la concorrenza? La logica è la stessa del superamento del valore dei titoli. Viva la vita «disordinata, affannosa, antidisciplinata», è l’unica che può produrre innovazione a vantaggio delle generazioni future.
La concorrenza risponde a domande alle quali le risposte non sono già note. Era vero nel mondo di Einaudi, lo è a maggior ragione oggi che «conoscenza» e «capitale umano» sono sulla bocca di tutti.