La nemesi (berlusconiana) di Piercamillo Davigo

La nemesi (berlusconiana) di Piercamillo Davigo

La metamorfosi di Piercamillo Davigo in Silvio Berlusconi si è completata. Tanto da scegliere lo stesso avvocato per salvarsi. Dopo la condanna in primo grado a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio, per la diffusione dei verbali segreti dell’avvocato Piero Amara relativi alla loggia Ungheria, l’ex pm simbolo di Mani pulite aveva attaccato pubblicamente, al podcast di Fedez, il tribunale di Brescia che lo aveva giudicato (“Sono stato condannato perché a Brescia non sempre le cose le capiscono”). Tutto ciò alla faccia dell’indipendenza della magistratura, che Davigo per tutta la sua vita si è compiaciuto di difendere (tanto da presiedere anche l’Associazione nazionale magistrati). L’attacco di Davigo indusse proprio l’Anm di Brescia a prendere posizione, mentre il tribunale bresciano si spinse addirittura a chiedere al Csm l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati, esattamente come è avvenuto decine di volte negli anni della guerra fra Berlusconi e il potere giudiziario.

La trasformazione dell’ex pm nel Cav. è proseguita dopo la conferma della condanna da parte della Corte d’appello di Brescia. Durissime le motivazioni depositate agli inizi di giugno, in cui si accusa Davigo di aver contribuito a “una fuga di notizie senza eguali precedenti”. Di fronte all’ennesima sberla giudiziaria, Davigo non si è dato per vinto e ha annunciato un altro ricorso, stavolta in Cassazione. Scelta assolutamente legittima. E pazienza se lo stesso è stato fatto più volte da Berlusconi, che per Davigo ha rappresentato la sintesi dei vizi di una classe politica, senza senso etico, che cerca di “farla franca” . E pazienza se proprio Davigo per anni, nelle sue ospitate televisive e persino nelle audizioni in Parlamento, se l’è presa con gli avvocati e l’alto numero di “impugnazioni pretestuose”: “In Italia ci sono 90 mila ricorsi in Cassazione all’anno, in Francia ce ne sono mille!”, disse furioso a La7 nel 2020.

La parabola si è completata nei giorni scorsi, quando è stato depositato il ricorso di Davigo in Cassazione. Sorpresa: a firmarlo non è solo Davide Steccanella, il celebre avvocato degli “indifendibili” Cesare Battisti e Renato Vallanzasca che ha assistito l’ex pm in appello, ma anche Franco Coppi, il penalista più famoso d’Italia, noto per aver difeso – tra gli altri – Giulio Andreotti e proprio Berlusconi in numerosi processi, tra cui quelli sul “caso Ruby”. La comparsa sulla scena di Coppi è significativa soprattutto per ciò che questa sembra implicare sul piano della strategia difensiva.

Se nei primi gradi di giudizio Davigo ha voluto portare avanti una difesa aspra e determinata, anche entrando in contrasto con la magistratura, ora che si è giunti in Cassazione si punta sul “principe” del foro, noto per il suo stile sobrio ed elegante, oltre che per la sua capacità di coltivare buoni rapporti con le toghe. Un cambio di approccio che ha caratterizzato anche la linea difensiva di Berlusconi, che al combattivo avvocato Niccolò Ghedini decise affiancare il più dialogante Coppi.

Leggendo il ricorso depositato dalla difesa di Davigo, tuttavia, si scorgono argomentazioni palesemente illogiche. A colpire è, in primo luogo, la concezione un po’ personalistica del segreto investigativo. Nel ricorso, infatti, si sostiene che “era stato lo stesso titolare del segreto (cioè il pm milanese Paolo Storari, che consegnò a Davigo i verbali di Amara, ndr) ad averlo di fatto rimosso nell’atto di dapprima informare, e in seguito materialmente consegnare, al consigliere Csm quei verbali, per cui (…) era chiaro per l’imputato che in quel momento quegli atti non erano più segreti per il Csm, essendogli stato espressamente richiesto dal legittimo titolare del segreto di riferirne al comune organo di autogoverno”. Insomma, proprio perché Storari ha consegnato i verbali secretati a Davigo si dovrebbe concludere che quei verbali non erano più coperti da segreto, come se fosse il singolo pm a decidere se un atto di indagine è segreto o meno, e non si sia invece di fronte a un obbligo previsto dalla legge (articolo 329 del codice di procedura penale), che peraltro investe tutto l’ufficio di procura e non singoli magistrati. Fosse vero quanto sostenuto nel ricorso, ciascun pm sarebbe libero di rivelare i contenuti di atti di indagine coperti da segreto, quando vuole e a chi preferisce, giustificandosi che è il singolo pm il “padrone” del segreto.

Ma la contraddizione più grande si rintraccia nella parte successiva dove si ritiene che, addirittura, in questo caso il segreto non esistesse affatto perché non si era proceduto all’apertura di una nuova indagine, diversa da quella in cui Amara aveva fatto le sue propalazioni: “In assenza dell’iscrizione di un procedimento il decreto di segretazione… deve considerarsi nullo, inesistente o inefficace in quanto totalmente privo di motivazione”. In pratica, tutto ciò, “determina l’assenza di segreto”.

Dunque, Davigo non commise alcun reato quando, dopo aver ricevuto i verbali di Amara, ne rivelò il contenuto in maniera informale a una decina di soggetti (svariati componenti del Csm, la sua segretaria, la sua assistente giuridica e il senatore Nicola Morra), mettendo in cattiva luce il consigliere Sebastiano Ardita, che nei verbali veniva accostato alla fantomatica loggia. In altre parole, Davigo non ha violato alcun segreto perché non esisteva alcun segreto. Questa nuova ricostruzione originale fa però venire meno la ragione fondamentale usata fino a ieri, innumerevoli volte anche nei talk-show, da Davigo per spiegare il suo comportamento fuori dai canoni (come il mostrare i verbali nella tromba delle scale del Csm): il segreto era talmente segreto che l’unico modo per tutelarlo era non rispettare le vie formali, altrimenti le persone citate nei verbali ne sarebbero venute a conoscenza. Insomma, il segreto di Davigo è come il gatto di Schrödinger: c’era e non c’era, contemporaneamente.

Il Foglio

Share