L’Impero vacilla, il debito cresce e noi discutiamo solo di questioni di genere

L’Impero vacilla, il debito cresce e noi discutiamo solo di questioni di genere

Due letture estive, due squarci di verità, un’amara constatazione.
La prima lettura è “La caduta degli imperi“ di Peter Heater e John Rapley, rispettivamente storico ed economista britannici: un denso saggio che si sforza di insegnare ad un Occidente declinante la lezione che è possibile trarre dalla caduta dell’Impero romano. A differenza di quanto sostenuto dal grande Edward Gibbon alla fine del Settecento, e ripetuto oggi da una moltitudine di piccoli sovranisti di qua e di là dall’Atlantico, Roma non perse la propria dimensione imperiale a causa delle invasioni barbariche. Le perse a causa di un eccesso di sviluppo che, privo di controllo, finì per avvantaggiare le confederazioni barbariche confinanti e di un sistematico conflitto con l’Impero persiano, che la dissanguò. La bassa crescita e gli alti debiti imballarono la macchina amministrativa imperiale, fino a fonderne il motore. La storia, sostengono gli autori, si ripete con la Cina al posto della Persia, con la crescita impetuosa, grazie alla globalizzazione, di aree geopolitiche un tempo considerate terzo mondo e con debiti pubblici crescenti che i governi occidentali usano “più per aumentare o mantenere gli attuali livelli di vita che per consentire prosperità futura”. “Il tardo Impero romano reagì all’erosione della sua base fiscale innalzando le aliquote per quel che rimaneva. I leader dell’Occidente moderno, invece, hanno potuto ricorrere ad una soluzione diversa, una delle invenzioni miracolose del mondo moderno: il debito. Nulla più che un modo abile di menare il can per l’aia”, scrivono Heater e Rapley.

La seconda lettura è un saggio del filosofo coreano Byung-Chul Han, “Infocrazia”: una critica spietata alla società del web; un’analisi lucida e drammatica sull’influenza dei social nel dibattito pubblico e nei processi decisionali. I fatti non contano più nulla, e se anche contassero nessuno sarebbe più in grado di vederli né di analizzarli. A contare sono solo le emozioni. “Si impongono non gli argomenti migliori, bensì le informazioni dotate di maggiore potenziale d’eccitazione”, scrive Han. La verità è diventata un concetto astratto, irrilevante, ma concretamente malleabile. “La comunicazione digitale – osserva Han – provoca un’inversione del flusso delle informazioni, che ha effetti distruttivi sul processo democratico. Le informazioni si diffondono senza passare dallo spazio pubblico. Esse vengono prodotte in spazi privati e inviate a spazi privati. Così la rete non costituisce una sfera pubblica. I social media rafforzano questa comunicazione senza comunità. Nessuna sfera politica pubblica è costruita a partire da influencer e follower.… Senza la presenza dell’altro la mia opinione non è discorsiva né rappresentativa, bensì autistica, dottrinaria e dogmatica”. Inutile dire che i leader politici, italiani, i più in generale occidentali, si sono serenamente adattati a questa nuova realtà calandosi inopinatamente nei panni degli influencer.

Ne discende una una constatazione piuttosto amara. Il debito pubblico italiano ha sfiorato a giugno i 3000 miliardi, le curve demografiche preludono ad una crisi dello Stato sociale, l’Europa ci chiede di elaborare un piano di rientro dal debito le cui clausole di salvaguardia impongono una riduzione dell’1% all’anno. Alcuni di questi nodi verranno al pettine già in settembre, ma abbiamo trascorso l’estate parlando di questioni di genere e di fascismo.

 

HuffingtonPost

Share