Altro che Trump, sono anni che il Washington Post si è piagato alla logica commerciale dei social

Altro che Trump, sono anni che il Washington Post si è piagato alla logica commerciale dei social

Più che le sorti della democrazia americana, l’attuale crisi del Washington Post può, forse, essere utile per meglio inquadrare la parabola dell’editoria tradizionale. Di quella americana come di quella europea, e dunque anche di quella Italiana.
La questione è nota. L’editore del prestigioso quotidiano statunitense, il fondatore di Amazon Jeff Bezos, ha disposto che il giornale non si schierasse tra Donald Trump e Kamala Harris e poiché la linea editoriale del Washington Post è chiaramente a favore dei democratici, la sua decisione ha provocato l’esodo di diverse firme prestigiose e la disdetta di migliaia di abbonamenti. A sinistra si è levato un coro: Bezos pensa solo agli affari e si è posizionato in vista della vittoria di Trump. Tutto vero, come è vero che da molti anni a questa parte il Washington Post (come del resto buona parte dei giornali occidentali) si è completamente ripiegato sulle logiche commerciali del Web di cui Bezos è uno dei campioni indiscussi. Una logica basata sui numeri piuttosto che sui principi. Quando ancora il Post era saldamente nelle mani della famiglia Graham, la nipote del proprietario, da questi collocata al vertice dell’azienda editoriale, annunciò alle redazioni il nuovo corso: “Dobbiamo concentrarci su quello che vogliono i consumatori e dare minor enfasi a ciò che noi consideriamo importante”. E quello che vogliono i consumatori corrisponde a quello che funziona sui social.
Fu così che la direzione del Washington Post, così come quasi tutte le altre, iniziò a valutare l’importanza delle notizie sulla base dei report quotidianamente stilati dalla società Chartbeat, specializzata nell’analisi del traffico Internet. Quel che funzionava sulla Rete finiva di conseguenza sulle pagine del giornale. “I clic dei lettori esercitavano una maggiore influenza sulla collocazione delle notizie che non il contrario. Era un’inversione di tendenza radicale”, ha commentato Jill Abramson nel bel saggio “Mercanti di verità, la grande guerra dell’informazione“. Da quel momento in poi è stata una deriva: si è imposta, nel vecchio giornale, la logica oppositiva e scandalistica tipica dei nuovi media; a decidere della qualità di un articolo, e dunque nell’opportunità di darne un seguito, non sono più stati l’autorevolezza dell’autore né la sensibilità del direttore, ma semplicemente il numero di clic ottenuti sulla home page.
La logica commerciale apparteneva, dunque, al Washington Post ancor prima che Jeff Bezos ne rilevasse la proprietà. Quanto al fondatore di Amazon, quando Don Graham gli offrì di acquistarlo rispose così: “Perché mai dovrei comprare il Post? Non so niente dell’industria giornalistica”. Poi si convinse. Ma la sua logica rimase quella onestamente dichiarata agli albori di Amazon: “Faremo con i piccoli editori di libri quello che fanno nella savana i leoni con la gazzella ferita”.
È questa è la logica dei Giganti del Web, e stupisce che tale logica appaia chiara solo oggi alle blasonate firme del già autorevole Washington Post.
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