Nel suo bell’editoriale di ieri su huffingtonpost.it, Mattia Feltri affronta il tema, in sé scivoloso, della giustizia internazionale. Un’“ipocrisia“, dice. Lo dice partendo dalla farsa del processo di Norimberga, per infine giungere all’inapplicabilità della sentenza di condanna del premier israeliano Netanyahu emanata dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Un giudizio, quello del direttore Feltri, in tutto e per tutto condivisibile, perché ispirato dall’unico criterio attraverso il quale dovrebbero essere valutate le questioni umane, e dunque le questioni politiche: il realismo. Si dà, però, il caso che non realista, bensì utopista sia stato il processo storico che ha portato alla nascita di organismi e corti internazionali esplicitamente volti a portare la pace in terra e, appunto, la giustizia tra gli uomini su scala planetaria.
Si tende, generalmente, a credere che sia il cinismo la bussola morale che orienta le scelte dei presidenti americani. Si tratta invece, spesso, anche se non sempre, di idealismo. Il presidente statunitense Woodrow Wilson, ad esempio, era un inguaribile idealista. Sconvolto come tutti dalla spaventosa carneficina della Prima Guerra Mondiale, Wilson, che per questo ottenne il Nobel per la Pace, pensò nientemeno di poter riuscire a scongiurare per sempre i conflitti armati tra gli Stati. Nacque così, sulla scorta di una forte spinta idealistica, la Società delle Nazioni, progenitore dell’Organizzazioni delle Nazioni Unite, l’Onu. Parallelamente, nel 1927, il Trattato Briand Kellog, che prese il nome dal ministro degli Esteri francese e da quello americano, fissò all’articolo 6 il principio di crimini contro la pace.
L’obiettivo era per così dire ambizioso, se non visionario: mettere letteralmente al bando la guerra, rigettando una volta per tutte la nota definizione del barone von Clausewitz secondo cui i conflitti armati altro non sono che “la prosecuzione della politica con altri mezzi”. Non funzionò. Gli Stati continuarono a combattersi come prima, ma per poterlo fare legittimamente, e per convincere opinioni pubbliche sempre più “pacifiste”, presero l’abitudine di demonizzare l’avversario. La guerra smise, dunque, di essere una modalità della politica, per assumere una connotazione etica quasi religiosa. La mostrificazione del nemico, invariabilmente narrato come la personificazione del Male assoluto, rese di conseguenza difficile far passare il concetto di pace negoziata: con il Diavolo, nessun accordo è moralmente concepibile. Ne discese il fatto che le guerre divennero sempre più lunghe e sanguinose, non potendo tendenzialmente che concludersi con la distruzione totale del nemico.
Paradosso simile è attribuibile alla Corte penale internazionale entrata in funzione del 2002 nella città olandese de L’Aia. Applicata alle relazioni internazionali, la logica penale produce, infatti, effetti indesiderati. Primo tra tutti il fatto che il capo di Stato o di governo contro il quale verrà spiccato un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra non avrà alternative se non quella di proseguire la guerra e rimanere con ogni mezzo abbarbicato al potere. La pace o il cambio di regime per il “criminale internazionale” coinciderebbero infatti con la perdita della libertà personale.
Non solo. Oltre alla difficile e spesso impossibile applicazione delle sentenze di condanna della Corte dell’Aia, balza agli occhi il fatto che i tempi della giustizia sono fisiologicamente più lunghi dei tempi della politica: affidare al diritto penale la soluzione dei conflitti armati tra gli Stati, dunque, significa allontanare il momento in cui le ferite provocate dalle guerre alle nazioni e al diritto internazionale si potranno finalmente cicatrizzare.
Secondo il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, il cui realismo fu a lungo motivo scandalo per molti benpensanti, “solo chi non capisce niente di politica può pensare di curare i mali del mondo con strumenti puramente giuridici. Ma il tentativo è chiaramente fallito. Anche perché un ordine mondiale presuppone un’identità mondiale e francamente non credo siano molti quelli che si sentono realmente cittadini del mondo mentre moltissimi sono ancora coloro i quali si sentono nonostante tutto francesi, tedeschi, americani, cinesi, giapponesi…”. A dimostrazione della tesi, Cossiga esibiva il conclamato “fallimento dell’ONU che, come appare chiaro a tutti, non è stata capace di risolvere un solo problema internazionale tra i tanti che si è trovata ad affrontare… Le Nazioni Unite non sono mai riuscite neppure a dare una definizione chiara di terrorismo, perché i paesi arabi e quelli governati dalla sinistra si sono sempre opposti ad ogni possibile ipotesi. I ceceni, le Farc colombiane, Hamas… Sono terroristi o resistenti? Impossibile chiarirlo e così è su tutto”.
Morale della favola. Come osservò Karl Popper, il più delle volte chi si ripromette di “portare il paradiso in terra“ finisce per creare condizioni infernali. Unica alternativa alla caduta negli inferi appare il precipitare nel ridicolo, dal momento che, come ha scritto Mattia Feltri, “quando la parola giustizia vuole essere applicata al mondo intero, diventa una parola che rimbomba nel vuoto, una risata planetaria”. E una risata di certo non ci salverà.