Ieri mattina, alla Camera, ho sostenuto l’opportunità del ripristino dell’immunità parlamentare e per certi aspetti è stato un déjà-vu. Riavvolgo il nastro. Quando, cinque anni fa, assieme ai colleghi Nazario Pagano e Tommaso Nannicini iniziammo a raccogliere le firme tra i senatori affinché potesse svolgersi il referendum sulla legge grillina che ha amputato la rappresentanza parlamentare, nessuno di noi pensava di poter vincere. La sconfitta era sicura. Tuttavia, sulla spinta della Fondazione Luigi Einaudi, ci impegnammo insieme a molti per quella che per tutti era una battaglia di principio. Il principio era ed è la dignità, e la funzionalità, del Parlamento. Il che, essendo la nostra una Repubblica parlamentare, equivale a dire la dignità e la funzionalità della democrazia.
Non ci impegnammo per difendere lo scranno dei rappresentanti, ma per tutelare i diritti dei rappresentati. Con nostra immensa sorpresa, le cose andarono molto meglio del previsto. Oltre il 30% degli italiani che il 20 e 21 settembre del 2020 parteciparono alla consultazione referendaria si recò alle urne e votò in difesa del Parlamento contro le indicazioni dei rispettivi partiti (tutti ipocritamente allineati alla retorica grillina per paura di perdere consensi) e contro il qualunquismo del sistema mediatico. Un risultato inaspettato, e per molti aspetti sensazionale. Il segno che quando le condizioni consentono un dibattito approfondito almeno un terzo degli italiani ha la capacità di assumere decisioni complesse, e di farlo con la propria testa.
Fu un’esperienza illuminante. E molti pensarono che la luce di quell’esperienza avrebbe illuminato anche le redazioni di giornali, telegiornali e talkshow televisivi. Non accadde. Come i politici assecondano l’antipolitica nella speranza di non perdere consensi, nella speranza di non perdere copie o punti di share così hanno fatto e fanno anche i giornalisti. Errore strategico e sospetto segno di masochismo dal momento che politica e giornalismo sono vasi comunicanti: se un vaso si prosciuga, prima o poi si prosciuga anche l’altro. Non è un caso che i partiti perdano iscritti nella misura in cui i giornali e le televisioni perdono lettori e telespettatori. Salvo poi lamentarsi coralmente del fatto che la democrazia non sia più popolare come un tempo e che la partecipazione al voto non sia mai stata bassa come oggi.
Con lo stesso spirito di cinque anni fa, ora che mi trovo nel ruolo di segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi ho convintamente assecondato il presidente Giuseppe Benedetto nella decisione di affrontare assieme un’altra battaglia. Una battaglia persino più impopolare della precedente: ripristinare l’immunità parlamentare per come i padri costituenti l’avevano codificata all’articolo 68. Il principio è analogo, difendere non il parlamentare ma la funzione che il parlamentare ricopre e difendere con essa la fisiologia democratica. Difenderla in questo caso dall’uso strumentale della Giustizia a cui il circolo mediatico-giudiziario ci ha abituati da oltre trent’anni. Cioè da quando, nel 1993, il Parlamento fece all’unanimità strame dell’immunità parlamentare nella convinzione di sedare la furia populista. Convinzione evidentemente errata. L’abolizione dell’immunità parlamentare non servì né a far trionfare la legalità né a placare la bestia dell’antipolitica. Così come, del resto, il taglio della rappresentanza parlamentare non è servito a risparmiare un solo euro di denaro pubblico, mentre di sicuro ha peggiorato il rapporto tra eletto ed elettore, oltre che la funzionalità della Camera e soprattutto quella del Senato.
Fa, dunque, piacere che ieri mattina, a Montecitorio, la presentazione del disegno di legge della Fondazione Luigi Einaudi per ripristinare l’articolo 68 della Costituzione abbia scosso come un sasso lo stagno della politica. Ringraziamo chi ha aderito, speriamo di convincere chi non l’ha fatto, confidiamo si avvii nel Paese un serio dibattito pubblico sullo stato e il futuro della politica e delle istituzioni.
Per quanto ci riguarda, abbiamo onorato il nostro compito. Che non è quello di solleticare la pancia della Nazione, ma è quello di diffondere nel Paese quella cultura delle Istituzioni di cui da un po’ di tempo a questa parte gli inquilini del Palazzo hanno perso l’orgoglio. E dunque anche il coraggio.