Occupazione, non c’è niente da festeggiare

Occupazione, non c’è niente da festeggiare

I nuovi dati divulgati da Eurostat certificano il record del tasso di occupazione in UE dal 2009, anno di inizio della serie storica. Un segnale apparentemente positivo per l’economia del continente ma causato, in realtà, da dinamiche tutt’altro che incoraggianti. A ben guardare, infatti, per molti membri dell’Unione vi è ben poco da festeggiare. Tra questi, l’Italia è certamente capofila, per via di problemi strutturali che divengono sempre più profondi. Le rilevazioni, infatti, confermano il triste e ormai cronico primato negativo del nostro Paese, saldamente fanalino di coda continentale. Pur riportando una crescita su base annua dello 0,8%, l’occupazione italiana, che nel 2024 si è attestata al 67,1%, mantiene un divario sostanziale con la media europea, salita abbondantemente sopra il 75%. A farle compagnia, tra gli ultimi della classe, solo Grecia e Romania. Il nostro Paese rimane maglia nera anche in tema di lavoro femminile, risultando occupate meno del 60% delle donne tra i 20 e i 64 anni.

Non stupisce dunque che Bankitalia dipinga un quadro cupo per il futuro del Paese, temendo un crollo del 9% del Pil italiano da qui al 2050, esattamente a causa della scarsa partecipazione al mercato del lavoro di donne e giovani, altra categoria in cui l’Italia incarna l’anello debole d’Europa. A gennaio 2025, infatti, risultava disoccupato il 18,7% dei nostri ragazzi tra i 15 e i 24 anni, contro una media UE del 14,6%. Per fornire una misura decisamente più concreta del fenomeno, nel 2024 i nostri under 35 hanno perso quasi 160mila occupati. In un Paese in cui vivono quasi 200 anziani ogni 100 ragazzi, è un dato che suggella il dramma del nostro inverno demografico. Di contro, infatti, gli occupati over 50 sono cresciuti di 378mila unità: di nuovo, un segnale apparentemente positivo, dietro cui si celano tuttavia l’invecchiamento della popolazione e la più lunga permanenza dei lavoratori sul mercato, dovuta all’aumento dell’età pensionabile.

La sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico, già sotto la pressione di un allarmante rapporto di 1,4 lavoratori per pensionato, è ulteriormente provata dal crollo verticale della natalità. Nel 2024, infatti, l’Italia ha registrato un nuovo minimo storico di nascite, con quasi 10.000 bebè in meno su base annua e un rapporto di 1,18 bambini per donna: in questo caso, solo Spagna e Malta fanno peggio di noi. A corollario, le rilevazioni divulgate lo scorso mese dall’ISTAT certificano anche la riduzione della popolazione residente in Italia per il decimo anno consecutivo, con un calo di 37mila unità nel solo 2024.

La mancanza di lavoratori, soprattutto giovani, ha ripercussioni notevoli anche sulla produttività italiana, in costante calo e il cui indice nel 2023 si attestava al valore di 101, ben al di sotto della media europea di 106. Il nodo più drammatico, tuttavia, rimane quello dei salari reali, che nel nostro Paese non crescono da oltre trent’anni. Al contrario, dal 2008 al 2024, hanno riportato una riduzione drastica, di circa l’8,7%: più che in tutti gli altri Paesi del G20, conferendo all’Italia anche il primato di unico Paese dell’UE in cui si sono persino contratti. Non va certamente meglio in termini di salari nominali, ove la nostra retribuzione media corretta è di circa 32mila euro l’anno: di 5mila euro inferiore alla media europea, pari a circa 37mila. Una tragedia che, in una spirale recessiva, deprime ulteriormente la natalità e incentiva la fuga di giovani italiani all’estero, alla ricerca di retribuzioni più idonee, causando un ulteriore invecchiamento della popolazione.

In definitiva, come spesso accade, la decontestualizzazione di un dato è funzionale soltanto alla sua strumentalizzazione. Il rischio palpabile è che certi toni trionfalistici forniscano un alibi al rinvio di quelle riforme strutturali che non possiamo più permetterci di rimandare.

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