Nonostante siano trascorsi più di due mesi dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca la strategia della sua amministrazione nei confronti del Califfato appare ancora come una grande incognita i cui risvolti rischiano di indebolire il neo-insediato presidente.
La vaghezza e il distacco con cui Obama, nel periodo successivo alla rivoluzione libica, ha affrontato il tema Isis ha permesso alla Russia di ampliare, ancora di più, il proprio potere nell’area mediorientale, facendo apparire gli Stati Uniti alla stregua di un osservatore non solo pigro, ma addirittura incapace di assumersi sulle proprie spalle la responsabilità di un caos determinato dalla poca lucidità della Clinton prima e di Kerry poi.
A conferma di tutto ciò, pochi giorni fa il ministro della Difesa dell’amministrazione Obama, Ash Carter, ha dichiarato che l’invio di nuove truppe nel “Siriaq” aumenterebbe la già forte avversione delle resistenze locali nei confronti degli americani. Trump, pur criticando l’eccessiva cautela di Carter non ha però spiegato, al di là degli annunci, le modalità grazie alle quali questo mutamento di politica avverrà. Nel suo discorso di insediamento il magnate ha più volte rimarcato come sia sua intenzione “distruggere l’Isis con tutte le forze”, senza tuttavia entrare mai nei particolari.
Il perché è facilmente desumibile: senza una forte alleanza strategica con la Russia – passaggio che Obama ha costantemente cercato di evitare – l’Isis continuerà a retrocedere e ad avanzare, proprio come è avvenuto nella città di Palmira, ora in mano agli alleati, ora in mano ai miliziani del Califfato.
Al netto delle difficoltà che insorgono ormai quotidianamente nelle strategie militari, secondo uno studio di IHS Markit, che realizza analisi sulla difesa e la sicurezza, l’Isis, nel solo 2015, ha perduto il controllo di circa 18 mila chilometri quadrati, pari a ben un quarto del suo territorio a cavallo tra Iraq e Siria. Il tutto mentre è in corso, in queste ore, una delle battaglie-madri, la riconquista di Mosul, seconda città
irachena per estensione. Se la parte orientale della città è ora saldamente in mano alle truppe anti-Isis, compresa la grande moschea dalla quale Al-Baghdadi si autoproclamò nuovo califfo dell’Islam sunnita, buona parte dell’area cittadina rimane ancora in mano ai miliziani dell’Isis.
È proprio da Mosul che capiremo, finalmente, quale sarà la strategia del cambiamento annunciata da Trump. Proprio da questa battaglia, destinata a durare presumibilmente per mesi, al pari delle altre riconquiste più o meno riuscite, testeremo l’eventuale svolta preannunciata dal neo presidente degli Stati Uniti anche in vista della sfida decisiva che avverrà a Raqqa, la capitale del Califfato.
Mosul e Raqqa rappresenteranno per Trump lo stesso significato che Mazar-i Sharif e Kabul rappresentarono per l’ultimo inquilino repubblicano della Casa Bianca nell’operazione Enduring Freedom: dentro o fuori. Per quanto la volontà di Trump sia quella di concentrarsi maggiormente sul fronte interno, a partire dalla neutralizzazione dell’Obamacare, non è difficile prevedere che la sua amministrazione sarà chiamata, obtorto collo, a fare i conti con quella politica estera (e militare) da troppo tempo abbandonata a se stessa.
Un re-intervento che si rende necessario non solo per tornare ad assumere il ruolo di grande potenza che l’America sembra aver perso ma anche perché lasciare di nuovo campo libero alla Russia, col timore che essa possa assumere ancora di più influenza strategica in un’area di fondamentale interesse per le strategie economiche statunitensi, rischierebbe di far apparire Trump complice delle mire espansionistiche di Putin.
Un quadro questo che, viste le sintonie tra i due e le polemiche circa influsso degli hacker nella notte elettorale, condurrebbe Trump in un vicolo cieco tale da indebolire la sua amministrazione decisamente troppo presto per affrontare efficacemente un quadriennio che si preannuncia già carico di difficoltà e interrogativi.
Simone Santucci
https://ofcs.report/usa-agenda-estera-trump-si-chiama-mosul-raqqa/