Gli inutili documenti prescritti da Bruxelles

Gli inutili documenti prescritti da Bruxelles

Come regalo di fine anno il governo ha emanato il 30 dicembre il Decreto Legislativo sulle comunicazioni di carattere non finanziario e relative alle “informazioni sulla diversità” da parte di imprese di grandi dimensioni.

Si tratta di un provvedimento, in attuazione di una direttiva europea (quelle famose direttive che, complicando inutilmente la vita, hanno contribuito a far votare ai britannici la Brexit) che, nel supremo interesse della trasparenza e della responsabilità sociale delle imprese, impone a quelle di una certa rilevanza la pubblicazione di alcune informazioni contenute in una dichiarazione allegata al bilancio.

I soggetti obbligati sono gli enti di interesse pubblico, vale a dire società quotate, banche e assicurazioni con almeno 500 dipendenti e che superino o i 40 milioni di fatturato o i 20 milioni di attivo patrimoniale. La dichiarazione deve contenere una serie di informazioni di carattere ambientale e sociale tra cui il “modello di gestione e organizzazione aziendale dell’impresa”, incluso il modello 231, e le politiche praticate dall’impresa, “comprese quelle di dovuta diligenza, i risultati conseguiti tramite di esse e i relativi indicatori fondamentali di prestazione di carattere non finanziario”. Soffermiamoci su quest’ultimo paragrafo.

Intanto è evidente che la frase “le politiche di dovuta diligenza” è una patetica traduzione del termine inglese “due diligence” che vuol dire indagine e verifica delle attività aziendali. Naturalmente, nessun consiglio di amministrazione saprà cosa scrivere sulla propria dovuta diligenza né sui risultati conseguiti attraverso di essa e coltiverà seri dubbi sugli “indicatori fondamentali di prestazione di carattere non finanziario” che il decreto non spiega quali siano se non facendo riferimento a vaghi standard internazionali.

Va bene, transeat.

Il Decreto continua prescrivendo l’indicazione dei principali rischi, generati o subìti, connessi ai suddetti temi e che derivano dall’attività di impresa, ivi comprese “le catene di fornitura e subappalto”. Insomma, una cosa un po’ complessa da ricostruire. In ogni caso, le dichiarazioni dovranno contenere informazioni riguardanti l’utilizzo di risorse energetiche, distinguendo tra rinnovabili e non rinnovabili, e l’impiego di risorse idriche nonché le emissioni di gas ad effetto serra e di quelle inquinanti!

E come farà un’assicurazione, una banca o una società finanziaria quotata a fornire queste informazioni? Pagando consulenti o distogliendo dipendenti da altri compiti per un’informazione del tutto irrilevante vista la tipologia di attività, ammesso che, se un’impresa rispetta i limiti previsti dalla legislazione, abbia senso questo autodafé sui presunti peccati di inquinamento.

Andiamo avanti. Si richiedono informazioni sulle politiche anti-discriminazione di genere (ovviamente non ci si aspetta che qualcuno dica una cosa banale tipo: premiamo il merito) e sulla modalità con cui è realizzato il dialogo con le parti sociali. Quest’ultima disposizione è surreale: non basta rispettare la normativa, come ad esempio concedere gli spazi per le assemblee e i permessi, ma bisogna dire come si dialoga coi sindacati.

A chi serve esattamente? Inoltre, si pretende disclosure sul rispetto dei diritti umani, sulle azioni poste in essere per impedire atteggiamenti discriminatori e, dulcis in fundo, sulla lotta alla corruzione che, fortunatamente per chi ha adottato il modello 231, si potrà descrivere rimandando a quanto spiegato all’inizio della dichiarazione.

Tutta la norma si basa sul principio comply or explain, vale a dire che il soggetto obbligato può anche non praticare qualcuna delle politiche previste, ma deve chiaramente spiegare le motivazioni di tale scelta, indicandone le ragioni in maniera chiara e articolata. Infine le sanzioni, che possono venire comminate sia ad amministratori che a sindaci, sono piuttosto sostanziose, da 20.000 a 150.000 euro a seconda della gravità della violazione (dal semplice mancato deposito alla mancanza di conformità a quanto prescritto nella legge, per arrivare alle falsità o all’omissione di fatti rilevanti).

Il paradosso di una norma come quella sinteticamente descritta è che si fa un gran parlare di semplificazione dell’attività di impresa, si ammette lo svantaggio competitivo provocato dell’iper-regolamentazione e dagli adempimenti burocratici e poi, in questo caso per responsabilità principale dell’Unione Europea, si introduce un ulteriore costoso peso ammini-strativo la cui utilità è come minimo dubbia e più probabilmente inesistente, visto che i comportamenti delle imprese, una volta rispettata la legge, certamente non cambieranno grazie al deposito di un papiello allegato al bilancio in cui si declameranno le virtù e si ometteranno i vizi.

Alessandro De Nicola, La Repubblica 6 febbraio 2017

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