C’è un solo modo per evitare che le violenze commesse da alcuni inneschino paure pericolose e rifiuti generalizzati: individuare e punire i responsabili, scagionando chi fosse accusato a sproposito. Far funzionare la giustizia.
Le società in cui la giustizia non riesce a essere la risposta al crimine s’imbarbariscono. Vale per una ragazza che viaggia su un treno e subisce violenza, come vale per l’orda vandalica che assalta la biblioteca dell’università bolognese (oltre ad assaltarla, del resto, non saprebbero come utilizzarla).
Vale per i clandestini che bloccano le stazioni, come per il moltiplicarsi di commerci illeciti e visibilissimi. Generalizzare è incivile. Lasciare correre è irresponsabile.
Non serve inasprire le pene, perché quell’approccio è già stato descritto da Alessandro Manzoni: le gride sempre più tonitruanti e arcigne, perché sempre più inutili e inapplicate. Serve che la repressione del crimine sia considerata una minaccia reale, non un’ipotesi letteraria.
Da questo punto di vista mi preoccupa che il governo abbia inserito in un decreto legge il potere di «daspo» ai sindaci: potranno impedire a soggetti non raccomandabili di avvicinarsi a determinati luoghi. Ma che succede se quelli se ne fanno un baffo? Un divieto ha senso se la sua violazione espone al concreto rischio della punizione. Altrimenti siamo alla grida.
Nel decreto gemello si trova la cancellazione di un grado di giudizio, nel caso in cui una domanda d’asilo venga respinta lo straniero potrà ricorrere solo in Cassazione. Non so se resisterà al vaglio di costituzionalità, ma temo che non risolva il problema, occorrendo comunque troppo tempo.
La giustizia nazionale è accessibile a chi si trova legittimamente in un Paese, o vi commette un reato. Chi prova a entrarci e non è gradito deve essere tenuto fuori senza coinvolgere i tribunali. Si rivolga, semmai, alla giustizia internazionale. Magari ha ragione, ma non può essere il modo per allargare le già affollate file di quanti popolano una terra di nessuno, in attesa di giudizio.
La paura è un sentimento che può salvare la vita. Se infondata va fugata. Il panico, invece, avvelena e minaccia la vita. Per evitare che dalla prima si passi al secondo non servono proclami, ma giustizia.
Sempre che non se ne debba parlare solo a proposito di pensioni dei magistrati e indagini pubblicate sui giornali e orfane di processi. [spacer height=”20px”]
Davide Giacalone, Il Giornale 13 febbraio 2017