Se i risparmi degli italiani vanno nelle scatole dei cinesi

Se i risparmi degli italiani vanno nelle scatole dei cinesi

Con un certo dosaggio tra cambiamento e continuità, il mese scorso il governo ha deciso le nomine di chi guiderà le maggiori società pubbliche quotate in Borsa. Il ministro Padoan ha illustrato alla stampa i motivi dei cambiamenti posti in essere, anche se alcune spiegazioni davano più l’impressione di una giustificazione ex post delle scelte effettuate.

Poco male, come avrebbe detto Marco Antonio durante l’orazione funebre per Cesare, manager e consiglieri selezionati sono uomini d’onore (lo so, ci sono anche donne, ma Shakespeare si riferiva a Bruto, non a Calpurnia) e si faranno valere.

I risultati delle imprese a partecipazione statale, peraltro, sono influenzati da molteplici fattori: certamente la capacità e onestà del management ma altresì la maggiore o minore intrusione della politica nelle loro scelte. Ed è proprio quest’ultimo punto ad essere cruciale.

Frequenti interferenze governative nelle decisioni delle società sono dannose ed insopportabili. Non solo non sono indice di buona governance anche in una società completamente privata — il codice civile è chiaro, la gestione spetta al consiglio di amministrazione e ai suoi delegati — ma in una pubblica esse non hanno mai a che fare con l’accrescimento del valore per tutti gli azionisti (ricordiamoci che nelle società quotate fino al 75% del capitale sociale è in mano ad investitori privati) bensì con interessi lato sensu politici.

Le recenti vicende della Rai, tra il ridicolo e il surreale, sono lì a ricordarcelo. La dirigenza (e qualunque osservatore di buon senso) è unanime nel ritenere che il super-populistico tetto agli stipendi degli artisti e conduttori danneggerebbe l’azienda. Piaccia o non piaccia i compensi sul mercato dello spettacolo son diversi e i concorrenti potrebbero a poco prezzo arruolare tutte le migliori star Rai (ivi comprese quelle della fiction): eppure, per motivi squisitamente politici, una decisione definitiva è ancora in sospeso.

Nel passato anche recente, d’altronde, abbiamo visto imprese formalmente private spinte a raggiungere risultati di politica industriale (o magari clientelare) immaginati dai governanti di turno e questa tendenza è ancor più pronunciata quando il proprietario è un ente locale.

Altrettanto perverso è l’intreccio al contrario, quando cioè sono le imprese pubbliche che hanno una prossimità privilegiata con il legislatore o il regolatore e ne influenzano le scelte a scapito dei concorrenti e del mercato.

Infine, una situazione non proprio ottimale si registra quando l’azionista pubblico non esprime chiaramente ex ante ed in termini generali e comprensibili quali obiettivi si prefigge di ottenere dalle società di sua proprietà. C’è il rischio che il management navighi a vista o defletta dallo scopo primario di creazione di valore per (tutti) gli azionisti, pensando a soddisfare piccoli interessi particolari o creando un potentato autoreferenziale.

La privatizzazione parziale delle società pubbliche non risolve appieno le questioni menzionate. Tuttavia, almeno, se le imprese vengono quotate e la maggioranza delle azioni (non il controllo) viene ceduta agli investitori privati, la disciplina di mercato si fa sentire ed incoraggia comportamenti più virtuosi.

Detto ciò, l’esperienza complessiva delle privatizzazioni in Italia ci dice che le società sottratte (parzialmente o totalmente) al controllo pubblico hanno migliorato le performance e aumentato il loro valore ed i settori dove prima si è privatizzato sono stati liberalizzati più velocemente.

Dove ci porta tutto questo? Al piano nazionale di riforme da sottoporre a Bruxelles che il governo ultimerà la settimana prossima. Da tale piano sarebbe necessario emergesse una rinnovata spinta al processo di privatizzazione.

Qualsiasi numero in meno degli 8 miliardi previsti dalla vendita di partecipazioni di cui oggi si parla sarebbe deplorevole (nessuno si dimentichi che l’Italia ha anche un problema di ridurre l’enorme debito pubblico), e pure 8 miliardi sono un obiettivo insufficiente, meno dello 0,4% del nostro debito.

Non basta: la metodologia che verrà seguita è altresì importante. Se l’idea è di far comprare quote di società del Tesoro alla Cassa depositi e prestiti e poi capitalizzare quest’ultima attraverso l’emissione riservata al mercato di azioni privilegiate nei dividendi e depotenziate nei diritti di voto, non ci siamo.

Si costituirebbe infatti un sistema- monstre di scatole cinesi: lo Stato controllerebbe la Cdp poniamo con il 51% del capitale (oggi l’83%) che a sua volta comanderebbe nelle grandi aziende quotate con il 30%: il tipo di capitalismo all’italiana da sempre sfavorevole al parco buoi, indigesto agli investitori istituzionali e per di più gestito dallo Stato.

Alcune ipotesi che si sentono circolare, poi, sono scoraggianti: il prestito di Cdp ad Alitalia o l’ingresso nella ex compagnia di bandiera delle imprese statali che hanno a che fare con il trasporto, tipo Ferrovie o Leonardo, risusciterebbero la vecchia Gepi, il carrozzone che si comprava le imprese decotte e le lasciava a bagnomaria a spese dei contribuenti.

Ci sono dunque ottime ragioni per alleggerire la presenza dello Stato nell’economia italiana, basta che ciò non si trasformi in una scaltra pubblicizzazione del risparmio privato. [spacer height=”20px”]

Alessandro De Nicola, La Repubblica 3 aprile 2017

 

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