Pochi sapevano fino al 1997 che Giovanni Sartori, il grande politologo morto ieri a Roma all’età di 92 anni (era nato a Firenze), si era laureato con una densa tesi sul pensiero politico di Benedetto Croce. Come sospettarlo, d’altronde, visto che già nel 1957 egli aveva dato alle stampe un volume, Democrazia e definizioni, che muoveva da tutte altre premesse metodologiche e si muoveva in un orizzonte di senso completamente differente?
Nel 1997, infatti, appena tornato in Italia dopo una parentesi americana (aveva insegnato alla Columbia a New York dal 1979 al 1994), Sartori aveva deciso di rivedere e pubblicare, per il Mulino, quei giovanili saggi crociani in cui sostanzialmente si riconosceva ancora in pieno. Ed è su questa continuità metodologica, e sulla sua distanza dal pensiero della tradizione italiana (Italian Thought), che oggi che Sartori non c’è più occorre a mio parere insistere.
Pur nel rispetto per la sua personalità morale, Sartori non era fatto per capirsi con Croce: per l’uno la politica era questione di oggetti e concetti, chiari e distinti, per l’altro una questione di vita e conflitti solo parzialmente ricomponibili; per Sartori la realtà doveva avere sempre l’orizzonte ideale, isolato e definito nella sua purezza, come termine di riferimento e paragone, per Croce la realtà era piena di tensioni e contraddizioni che un pensiero non puro, ma “dialettico”, doveva in qualche modo approssimare.
E Democrazia e definizioni questo e non altro è se non un monumento di logica e coerenza estrema, ove ogni idea e concetto si definisce e distingue con nettezza dagli altri e il tutto procede con consequenzialità e coerenza interna. Oggi che si parla tanto, e a sproposito, di democrazia, chiarirsi, con la guida sapiente di Sartori, con la sua capacità di dissezionare, separare e unire termini e concetti, è quanto mai è opportuno.
E non è un caso perciò che egli sia sempre ritornato su quel libro fortunato (tradotto in tutto il mondo e ancora oggi studiato come un classico), affinandolo e aggiornandolo con la certosina sapienza che può avere solo (forse il paragone non gli sarebbe dispiaciuto) un chirurgo. Il fatto è che però, quasi come un Giano bifronte, Sartori accostava alla pazienza dello studioso il sarcasmo e la puntutezza di certi toscanacci.
Un carattere che mal sopportava chi mal pensava, chi usava a sproposito e con significati non corretti le parole del lessico politico, chi in Italia si inventava sistemi elettorali e riforme della costituzione che non rispondevano a quello spirito razionale e super partes che a suo dire avrebbe dovuto essere di politici illuminati.
Certo, Sartori avvertiva che un equilibrio si era ultimamente rotto anche in Occidente, che forze illiberali minacciavano la civiltà liberal-democratica in cui lui fortemente credeva, che il multiculturalismo veniva erroneamente assimilato da classi dirigenti imbelli al pluralismo liberale, che persino l’uomo aveva subito una trasformazione antropologica sostituendo sempre più le suggestioni e le immagini ai concetti come guida delle proprie azioni.
E che dire della Chiesa cattolica che avallava, soprattutto in Africa e America Latina, politiche della popolazione che avrebbero portato inevitabilmente, sempre a suo dire, al collasso ambientale del pianeta?
Non capiva, lui illuminista, questa stagione di nuovo romanticismo politico, che è certo inquietante ma che per uno studioso dovrebbe essere prima di tutto interessante. La combatteva con un supplemento ancora maggiore, se possibile, di sarcasmo e sprezzo.
Aveva deciso di recitare una parte in commedia e si rifiutava di capire, lui liberale illuminista, la critica al razionalismo politico che in ambito liberale, da Hayek a Oakeshott, pur era montata nel corso del Novecento.
Delle sue opere comunque non potremo fare a meno e al suo pensiero, ancora per molto tempo, continueremo a guardare come a quello di un classico.[spacer height=”20px”]