Liberalismo, globalizzazione e ceti
La crisi della forma -Stato – connessa anche al parallelo diffondersi ed al progressivo intensificarsi del processo di globalizzazione dell’economia mondiale – proietta su una dimensione trans-nazionale i relativi problemi di costruzione e di legittimazione istituzionale, e ripropone oggi sotto nuova veste i temi antichi del rapporto fra democrazia e formato (Size) dell’organizzazione politica, che furono già tipici del Liberalismo classico (a partire almeno da Montesquieu), ed hanno poi costantemente accompagnato la riflessione politica moderna, fino alle pagine contemporanee di R. Dahl.
Il processo di globalizzazione – sulla cui pervasività giustamente insiste nel suo intervento Salvatore Carrubba – pone necessariamente a paragone non solo economie e mercati, ma anche culture, fedi e religioni un tempo reciprocamente distanziate e talvolta anzi addirittura saldamente incomunicabili : scavalca in tal modo gli antichi limiti statali, e trasferisce in un àmbito plurinazionale e mondiale tensioni, conflitti e problemi che un tempo trovavano adeguata trattazione e negoziazione esclusivamente all’interno delle più isolate e provinciali compagini nazionali.
Indubbiamente, una simile evoluzione può anche essere considerata un fatto buono in sé, giacché è suscettibile di rendere disponibili alla crescita economica e sociale aree e popolazioni che un tempo n’erano invece stabilmente escluse, coinvolte com’erano nel gioco del meccanismo del sottosviluppo da una parte e, dall’altra, nei nessi e nelle gerarchie di condizionamento e dipendenza che nel tempo si erano consolidate tra i vari sistemi di controllo politico e militare.
Nondimeno, il processo complessivo di globalizzazione economica e sociale, che si è sviluppato nel tempo sulle scorie della società post-industriale, oggi trascina con sé – di là da una serie innegabile di vantaggi materiali e di migliorate occasioni strumentali – anche un compendio ineludibile e serrato di vere e proprie ‘sfide alla libertà (per utilizzare una vecchia ma pur sempre efficace espressione di G. F. Malagodi).
Non provo nemmeno a dare in questa sede una definizione preliminare della nozione di libertà, per le complessive, ben note aporie – quanto meno d’individuazione sostanziale e di conseguente catalogazione – che una simile operazione potrebbe comportare (cfr. ad es., su un punto analogo, Maffettone in R. Dworkin – S. Maffettone, I fondamenti del liberalismo, Bari 1996, 129-30 in particolare).
Il concetto di ‘sfida alla libertà, quindi, può essere utilmente adottato e servire in questa sede appunto in virtù della sua carica dialettica e negativa, e proprio per esonerarci dall’impegno introduttivo – più pericoloso che oneroso – di dare una definizione assoluta e protocollare della libertà stessa : esso ne delimita infatti il concetto ab extra, saldando in tal modo il fondamento concettuale della libertà non già ad un corpo precostituito di dottrine acquisite, bensì ad un processo e ad un conflitto che appartiene inevitabilmente al mondo della prassi e della storia, e si sottrae a quello infido eppur seducente delle certezze e dei valori consolidati in sistema.
La libertà, insomma, vive come ideale e come valore ‘mobile’ fintanto che il cittadino la percepisce come se essa fosse un valore insidiato : è uno di quei concetti che, per così dire, ‘vivono morendo’.
E l’epoca presente può essere veramente la stagione delle libertà, perché appunto essa dispiega prepotentemente una serie puntuale di sfide alla libertà stessa.
Il governo della società complessa pone infatti un primo, radicale problema al momento stesso in cui esso prende atto del processo di cetualizzazione nel frattempo consolidatosi nel corpo stesso della società post-industriale.
Una risposta liberale alla cetualizzazione, quindi, non può essere che quella di una riscoperta del valore della giustizia distributiva, in modo che ai gruppi interni alla società contemporanea sia fornito preliminarmente e contemporaneamente il riconoscimento della propria identità originaria, unito alla garanzia della loro equiparazione e della loro eguaglianza con tutti gli altri aggregati corporativi : parlo di giustizia distributiva perché un simile processo passa necessariamente attraverso l’elaborazione e l’imposizione di meccanismi formali e giuridici che siano appunto collativi a singoli e gruppi sia di distinte e peculiari forme di dignità, sia anche del connesso ruolo sociale.
È stato d’altronde osservato da parte di recenti visitatori dell’argomento della libertà, freschi di rinnovate e non prima praticate curiosità liberali (Luciano Canfora, Manifesto della Libertà, Palermo 1994, 44-5), che la nostra società si atteggia piuttosto come una società delle libertà anziché della libertà.
Possiamo osservare che l’osservazione trova un suo preciso fondamento nell’evidente fondamento cetuale dell’aggregazione sociale del sistema politico dell’età post-industriale. Un ordinamento costruito sul pluralismo e sulla varietà dei tipi di libertà è sostanzialmente caratterizzato da una parallela diversificazione degli statuti personali dei soggetti giuridici: è una società di corpi giuridicamente differenziati dei cittadini (di ceti) ; è, in una parola, una società dalle molte cittadinanze, non più una società a soggetto giuridico unico.
I liberali debbono promuovere una nuova teoria dell’eguaglianza, che arrivi a sancire formalmente la pari dignità dei vari gruppi e di tutti i soggetti presenti nel corpo sociale : la loro mèra presenza fisica entro i termini dell’ordinamento giuridico deve in conclusione essere portata a riscuotere un riconoscimento formale ed una tutela sostanziale da parte dei meccanismi istituzionali di garanzia soggettiva.
La polietnìa si appresta a diventare un corredo normale e non occasionale dei differenziati complessi istituzionali e dei corrispondenti sistemi politici, che vanno organizzandosi più o meno spontaneamente nell’area dei paesi occidentali.
Tali àmbiti d’esperienza giuridica e politica sono in tal modo destinati alla loro materiale concorrenza – nel senso letterale della parola – con altri contesti d’esperienza politica di segno e qualità nettamente opposti, che in area soprattutto orientale generano invece vocazioni d’egemonia etnica dalle propensioni non di rado decisamente sanguinarie (dai campi della vicina ex-Jugoslavia agli altipiani dell’Afganistan e del Tibet) : laddove il totalitarismo ideologico e religioso si associa non di rado e volentieri ad inumane tecniche militari d’appropriazione e di disinfestazione del territorio da etnie diverse da quelle dominanti e vincitrici.
La globalizzazione dell’economia mondiale pone quindi a diretto paragone (conferendo loro una contiguità non solo cronologica, ma anche materiale) sia evolute società multirazziali, sia anche marginali aree politiche, caratterizzate da pratiche diffuse d’integralismo ed arretratezza ideologica e religiosa. Di conseguenza, essa ripropone dunque al mondo occidentale l’inquietante idea che anche oggi, sulle soglie dell’Impero del benessere, sostano popolazioni e si organizzano ordinamenti politici che – letteralmente – sono ‘barbari’ perché, in politica, in religione, nella complessiva prassi sociale, sono separati ed anzi antagonisti nei confronti dell’Impero stesso, che fronteggiano e minacciano, affetti da una totale incapacità d’assimilazione e di comunicazione non solo linguistica, ma soprattutto culturale.
Di fronte ad una simile, inquietante acquisizione di consapevolezza le risposte liberali debbono essere d’ordine culturale e politico, e si compendiano, in definitiva, in una duplice strategia : quella della contrattualizzazione e quella connessa ed essenziale della secolarizzazione dei rapporti sociali e politici.
Per consentire una strategia di compatibilità tra il nuovo ordine di ceti che i tempi vanno apparecchiando – che è essenzialmente fondato sulla mistica corporativa del gruppo (a base territoriale, etnica o professionale che sia) – ed il sistema di valori liberali – che invece è in primo luogo e radicalmente rivolto alla garanzia dell’autonomia individuale –, il liberalismo deve quindi in primo luogo riaffermare il principio di una gestione contrattuale dei ruoli sociali.
All’interno della società si possono anche isolare posizioni differenziate e individuali di garanzia e di tutela per specifici gruppi, ordini e soggetti, purché ciò non rientri nella logica di un’attribuzione esclusiva e proprietaria di simili privilegi, ma sia bensì parte di uno specifico sinallagma politico, che le parti interessate sono chiamate ad intrattenere con l’ente titolare di signoria.
È la logica di reciproca e scambievole attribuzione di protezione e di fedeltà politica che a suo tempo fu alla base dell’obbligazione feudale, e si versò poi dentro i contenuti politici e giuridici della Magna charta libertatum del 1215, determinando attraverso quelle matrici feudali i contenuti e l’evoluzione successiva del liberalismo costituzionale inglese.
Tali remote ascendenze feudali dei contenuti di garanzia del moderno diritto costituzionale possono forse essere recuperate come schema d’intervento soprattutto nei rapporti interni alla società globale, che è per l’appunto strutturalmente caratterizzata dalla compresenza e contiguità nell’àmbito dello stesso scenario politico di enti e soggetti reciprocamente disomologhi sia per rispettiva capacità economica, sia per peculiare vocazione culturale, sia come risultato di una specifica gerarchia politica e sociale.
Tale linea d’attenzione mira a recuperare dentro l’àmbito della riflessione storica sull’esperienza liberale sistemi di relazioni come quelli feudali che, pur essendo rigorosamente oligarchici, furono anche rigorosamente garantisti ed introdussero nel campo delle regole costituzionali la prassi della limitazione contrattuale e giuridica del potere di signoria politica.
L’idea, suscettibile d’interessanti ed ancóra inesplorati approfondimenti in campo storico, è d’altronde avvalorata anche da alcune riflessioni di politologi comparatisti come G. A. Almond (in particolare in G. A. Almond – G. B. Powell, Comparative Politics : A Developmental Approach, 1966), quando pongono su una medesima linea evolutiva sistemi politici come quello feudale e quello liberal-democratico (caratterizzati entrambi da un’ampia autonomia dei sottosistemi), e li differenziano soltanto sotto il profilo della loro maggiore o minore secolarizzazione politica.
La regola della secolarizzazione è dunque il garante privilegiato e preferenziale di ogni processo di costituzionalizzazione liberale, e la discussione sui ruoli e sui poteri di vecchi e ‘nuovi’ modi di aggregazione sociale trova nella pratica illuministica dell’emancipazione umana e culturale il canone essenziale del proprio funzionamento.