Ad andare a monte non è solo la sorte di azioni e obbligazioni, nella vicenda legata al Monte dei Paschi di Siena emerge tutta intera l’insipienza politica e il sommarsi degli errori. Nei giorni della campagna elettorale eravamo da soli a indicare il pericolo di far slittare i termini, come se fosse normale posporre la sostanza alla propaganda. Quando è passata, nel silenzio, la data del 7 settembre, entro la quale si sarebbe dovuto concludere il negoziato e oltre la quale Unicredit, il potenziale acquirente, perdeva l’esclusiva, ci siamo chiesti come fosse possibile che la cosa non interessasse nessuno. La classe dirigente non è solo politica. E qui s’è squagliata. Ed ecco il danno: il governo che sta facendo di tutto per rispettare i tempi degli investimenti concordati in sede europea dovrà umiliarsi a chiedere una proroga per riuscire a vendere il 64% delle azioni di una banca, altrimenti illegittimamente detenute.
A noi parve evidente che dilazionare metteva Unicredit in una posizione di forza negoziale, giacché il tempo lavorava contro la mano pubblica. Già quasi sei miliardi del contribuente se ne sono andati, per una delle ricapitalizzazioni. Altri tre erano nei programmi. Ma la controparte, memore anche del modo in cui la Popolare di Verona e Veneto Banca erano finite a Intesa San Paolo, avendo già messo la condizione che la fusione non indebolisse la sicurezza patrimoniale, ha alzato la posta: ne servono 8, di miliardi, e uscite laterali per il personale in esubero e gli sportelli da chiudere, senza contare le cause pendenti, il cui rischio se lo sarebbe dovuto accollare lo Stato. Troppo. Il governo ha fatto bene a non seguirli su questa strada. Solo che, adesso, sta in mezzo a una strada. Con il tempo che corre.
A chi crede che Unicredit abbia tirato troppo la corda suggerisco: a. che sbolognare le azioni era nell’interesse dello Stato; b. dare una sbirciata alle castronerie dette dalla politica. Era tutta una gara, da sinistra a destra, per assicurare che il futuro sarebbe stato come il passato. Impossibile. Enrico Letta, neo parlamentare di Siena, eletto con il 49.92% dei voti (complimenti e buon lavoro), espressi dal 35.59% degli aventi diritto al voto, a seguito di una disfida che non ha appassionato quanto il Palio, ha detto che si è evitata una “svendita”. Forse non è chiaro: il modo in cui è stata ridotta la banca comporta un costo e l’ipotesi che rimanga come è non solo è irreale, ma moltiplica quel costo. Unicredit avrà pure tirato troppo la corda, ma la politica ci si è impiccata da anni. Certo, in particolare la sinistra, perché quella era una banca dominata dagli enti locali, dai feudi prima comunisti e poi piddini, con un imbarazzante volteggio dal governo al Parlamento alla presidenza di Unicredit (Pier Carlo Padoan). Il che rende ancora più paradossale che la destra stia lì a ripetere le stesse cose che dice la sinistra, salvo ricordarne le responsabilità. Per non dire di quanti strologano di “terzo polo” bancario, di cui ora anche i frinenti divennero alfieri: con i soldi di chi? guidato da chi? nominano i cugini e gli amici? Beh, è quello che si fece e il risultato è stato il tracollo.
Ecco quel che Mps mostra: politica irresponsabile; politici incapaci; informazione che non morde; corsa privata a portare via fondi pubblici; governo ragionevole costretto a figure tapine. Il tutto con società quotate e mercato opaco. E ora? Ora si vende ai fondi, che a Rocca Salimbeni ci fanno un albergo, valorizzano gli attivi e seppelliscono il resto; o si trova un acquirente straniero, relegando i sovranisti a spese altrui nel museo del folklore; oppure si trovano capitali privati italiani disposti a provarci. In una corsa contro il tempo. Fuori da ciò c’è una nazionalizzazione di fatto che brucerà soldi dei contribuenti, della sora Cesira e del sor Augusto, la Sor&Sor che non conta e paga, e, non bastasse, incenerirà credibilità del Paese, rispetto alle regole europee.
La Ragione