L’intervista al Presidente è durata 90 minuti, a seguire ne riportiamo cinque passaggi emblematici estrapolati in ordine cronologico. Il primo: “I migranti possono uccidere, saccheggiare e stuprare impunemente perché i loro diritti devono essere tutelati…”. Il secondo, che è poi quello centrale: “L’ideale liberale é divenuto obsoleto. É entrato in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione…”. Il terzo: “Il tradimento è il crimine più grave possibile e coloro i quali si macchiano di tale reato devono essere puniti in maniera esemplare”. Il quarto: “Non sto cercando di insultare nessuno, perché siamo stati condannati per la nostra presunta omofobia, ma non abbiamo nessun problema con le persone LGBT”. E, infine, il quinto frammento: “Non ci saremo per caso dimenticati di vivere in un mondo basato su valori biblici?”.
Donald Trump? No, Vladimir Putin. Si tratta della nota intervista rilasciata dall’autocrate del Cremlino al Financial Times la notte precedente il summit del G20 di Osaka. Siamo nel luglio del 2019, a parlare è Putin, ma chi scrive ritiene che tra i lettori nessuno si sarebbe stupito nel leggere gli stessi, identici concetti attribuiti all’attuale presidente degli Stati Uniti.
È solo un piccolo test, un modo per rendere comprensibili le affinità tra i due presidenti. L’intervista è stata realizzata dal direttore del Financial Times al Cremlino, in una sala costellata dalle statue russe di epoca imperiale e sotto lo sguardo vigile dell’immagine di Pietro I il Grande, lo zar che dopo decenni di conflitti nel XVIII secolo diede forma ad un impero che andava dalla Finlandia, agli Stati baltici del Nord fino al Mar Morto al Sud. Nell’intervista, Vladimir Putin chiama confidenzialmente Trump per nome, “Donald“, e di lui dice: “Non è un politico di carriera… Penso che sia una persona di talento. Sa molto bene che cosa i suoi lettori si aspettano da lui”.
Sappiamo, dunque, che Putin stima Trump e sappiamo, perché ce lo ha confermato il consigliere per la sicurezza del suo primo governo, che Trump a Putin invidia il potere assoluto di cui dispone. Sappiamo anche, perché ne abbiamo avuto dimostrazione concreta nelle ultime settimane, che Donald Trump, tra forzature interne all’assetto costituzionale statunitense e barriere protezionistiche all’esterno, ha posto in essere una politica oggettivamente illiberale. È, dunque, lecito domandarsi se con Donald Trump gli Stati Uniti abbiano definitivamente rigettato i principi liberaldemocratici che negli ultimi ottant’anni hanno rappresentato la bussola che ha guidato i passi dei diversi presidenti in carica.
L’attacco ai principi liberali, e cioè allo Stato di diritto, al pluralismo, alla tutela inderogabile dei diritti umani e senz’altro coerente con la storia della Federazione russa. Una storia integralmente vissuta al di fuori di questi principi, eccezion fatta per la rivoluzione borghese del 1905 e per i primi anni del governo Eltsin successivo al disfacimento dell’Urss. Evidentemente, la tradizione politica e culturale degli Stati Uniti è radicalmente diversa. Il punto, dunque, oggi è capire se Donald Trump sia il frutto di una palingenesi culturale e politica dell’America o se sia semplicemente un errore della Storia. Nel primo caso, dovremmo celebrare il funerale dei modelli liberaldemocratici occidentali e rassegnarci ad un ordine globale affidato alle aree di influenza dei grandi imperi secondo la logica di Carl Schmitt. Nel secondo caso, dovremmo solo attendere l’inesorabile caduta di Trump.