Il governo a 5 stelle di Roma è un caso interessante che mostra la pericolosità dei due grandi pilastri intorno a cui si organizza il potere del nostro tempo: il populismo e la tecnocrazia. Da un lato, il Movimento 5 Stelle vince le elezioni con una candidata costruita in laboratorio dalla Casaleggio & Associati e sfruttando il voto di protesta contro le elitè partitiche corrotte che hanno governato la Capitale. Nella retorica elettorale grillina si sviluppa una ricetta populista composta di giustizialismo, giacobinismo dell’onestà, periferie abbandonate, antipolitica e sovranismo. Dall’altro lato, una volta sbarcati al Campidoglio i grillini si accorgono di non disporre di una classe politica in grado di affrontare l’intrinseca complessità del governo.
L’unica soluzione possibile resta la costruzione di una giunta tecnocratica. Infatti, se si guarda agli assessori del sindaco Raggi non c’è traccia di politica, non c’è un assessore eletto, i profili scelti sono quelli di alti burocrati, magistrati, accademici e professionisti mai avvistati in nessun meet-up o volantinaggio grillino. Nonostante i 5 stelle abbiano sfiorato il 70% dei consensi al ballottaggio di giugno non c’è segno alcuno della “politica classica”, fatta di consenso e pragmatismo amministrativo. Virginia Raggi è un sindaco solo circondato da tecnocrati.
Si annida qui, nelle categorie politiche, tutta la contraddizione del messaggio grillino: sobillare la rivolta del popolo contro i vecchi partiti, i tecnici, i poteri forti e poi comporre proprio una giunta di tecnocrati perché il vero risultato della filosofia a 5 stelle, la sua conseguenza non intenzionale, è la distruzione di quella classe politica professionalizzata teorizzata da Max Weber un secolo fa. Cioè di personale politico che nelle democrazie mature è capace di gestire la macchina amministrativa, guidare i processi decisionali, mediare interessi e stabilire collaborazioni. Nella campale lotta pentastellata alla mal-administration capitolina la rabbia è tutta canalizzata verso la politica tradizionale e non v’è strategia d’attacco al problema più complesso e grande di Roma: una macchina burocratica traboccante di privilegi, inefficienze e disfunzioni. E non è un caso se proprio nelle nomine di sottogoverno, negli incarichi di dirigenti e dipendenti pubblici che inizia l’odissea dell’inesperta Raggi.
Se alziamo lo sguardo dalle vicende di cronaca il caso Roma spiega l’emergere di una nuova categoria della politica che si sta dispiegando in tutto il mondo occidentale: il tecnopopulismo. Nella crisi infinita dei partiti tradizionale cresce un messaggio di profonda contestazione alle classi politiche, amministrative ed economiche in nome della protezione e del riscatto del popolo mentre, al tempo stesso, il capitalismo globale non può fare a meno dei tecnici per gestire le sue complessità. I segni e gli effetti su larga scala della tensione tecnopopulista sono evidenti: le contrattazioni del TTIP, l’accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti d’America, si sono bloccate definitivamente per le proteste dei movimenti populisti e le indecisioni dei committees tecnocratici; il problema dell’immigrazione partorisce molte risposte amministrative e costituisce un capitale politico per molti dei nuovi partiti europei, ma non delinea risposte decise da parte dei governi, cioè della politica tradizionale; la Brexit è stata la risposta rancorosa del popolo alle regole della burocrazia europea, ma anche la rivolta contro un gruppo di professionisti della politica, guidato da David Cameron e George Osborne, da sostituire con un’altra squadra più fresca e aggressiva.
In questo scenario, chi paga il prezzo della dialettica tecnopopulista sono proprio le classi politiche e le arti che queste rappresentano: mediazione, moderazione, prudenza, ricerca del compromesso. Tuttavia, il tecnopopulismo non è una soluzione possibile, ma un pericolo. Il populismo non può governare perché è troppo alto il rischio si di perdere consensi nella complessità dell’amministrazione, proprio come insegna il caso Raggi, sia perché il rischio di politiche fallimentari scelte sull’onda emotiva e popolare è troppo elevato per il sistema globale. Allo stesso tempo, la tecnocrazia può essere un accessorio importante, nelle funzioni d’implementazione e di controllo, ma non il cuore del governo perché come scriveva Wilfredo Pareto: “si può peccare per ignoranza, ma si può peccare anche per interesse. La competenze tecnica può evitare il primo male, ma non può nulla contro il secondo.”
In sintesi, sacrificare la politica classica sull’altare dell’intransigenza morale e del nuovismo è il primo passo verso la distruzione della democrazia governante e la sua sostituzione con un regime ibrido costituito da promesse politiche mai realizzabili e tecnocrati privi di ethos politico. È innegabile che nell’emergenza gli esecutivi possano essere “depoliticizzati” con una fase di commissariamento che sblocchi l’impasse delle riforme, ma non può essere la regola. Anzi, questo fenomeno di “depoliticizzazione” diventa ancora più pericoloso quando originato da vittorie elettorali che esprimono una volontà di distruzione della classe politica tradizionale perché si finisce come il sindaco Raggi: con le urne piene e il governo vuoto.
Per concludere, non esiste democrazia liberale senza una classe politica governante né senza tecnici competenti che aiutino ad affrontare le complessità del governo e controllino il rispetto delle regole. La politica può e deve essere sottoposta ad un ricambio dinamico quando i cittadini ritengono insufficiente il suo operato, ma non può essere sostituita soltanto né dalla tabula rasa in nome del popolo né dai buoni curriculum al potere. Servono, piuttosto, delle arene in cui forgiare una classe politica in grado di frenare tanto le pulsioni populiste quanto le spinte tecnocratiche, e di addomesticarle entrambe. Per questo la politica professionalizzata va difesa dal giacobinismo populista, dalla burocratizzazione e dal giustizialismo. Perché è nella gestione prudente e nel disinnesco dell’attrito tecno-populista che si gioca il futuro della democrazia. Vale per Roma, per l’Europa e per l’Occidente tutto.
Lorenzo Castellani, Il Foglio del 20 settembre 2016