Il tema del branco e della violenza va affrontato senza timori e senza ipocrisie. Non mancano le formazioni indigene, ma neanche quelle di immigrati. Se non si vuole concentrarsi sul colore della pelle si dovrà farlo sul calore della risposta. Il tema non è: come deprecare, ma: come fermare.
La Francia c’è arrivata prima, per ragioni storiche, ed ha commesso errori dai quali possiamo prendere esempio, per non ripeterli: serve a nulla osservare che si tratta della periferia, della banlieue, e non serve definire racaille, la feccia, i violenti che ne arrivano, come fece Sarkozy. Quelli sono francesi come questi sono italiani, ma quelli e questi sono figli di chi venne da fuori. Non dobbiamo far finta di non saperlo, dobbiamo chiederci in cosa sbagliano loro e in cosa noi.
L’errore comune è generalizzare. I bianchi e i neri. Nel nostro passato abbiamo un razzismo feroce e abietto, fra bianchi. Non è sparito, ma lo abbiamo superato. Ci sono, fra noi, razzisti per il colore della pelle, ma la nostra Costituzione e le nostre leggi li condannano. In quel convoglio dell’orrore, che avrebbe dovuto portare delle ragazze da Gardaland a casa, dei neri le hanno assalite, molestate e offese.
Un nero le ha aiutate a scendere, a Desenzano, sottraendole alla violenza. Quel branco, del resto, le aveva individuate come “le bianche”, producendosi in un razzismo che non è “al contrario”, è solo e soltanto: razzismo.
Se guardo le strade dello spaccio di droga vedo molti neri. Non è una vocazione, ma una condizione. Prima erano tutti bianchi e tutti drogati, che spacciavano per avere la loro dose. È cambiato il terminale, non il sistema: si usano i deboli, i sacrificabili, quelli che pensano di avere poco o nulla da perdere e che bramano quel che lo spaccio offre loro.
La pensavo così dei drogati spacciatori bianchi la penso così degli spacciatori neri: arrestarli, non per qualche ora, avviarli al recupero non è solo difesa della società, ma anche della loro vita. Lasciarli spacciare è abbandono alla disgrazia. Per dirla più ruvidamente: la repressione è generosa, la tolleranza egoista.
Sul davanzale al mio fianco irrigo, alla sera, una pianta di basilico. I terroni di prima pare lo coltivassero nel bidet, avvalorando l’idea che avessero le chiappe sporche. Anche questa l’abbiamo superata (non tutti). Quando si arriva da un altro posto si è riconoscibili: per costumi, abitudini, fede. La convivenza fra fedi diverse e fra fedeli e non fedeli, non è una nostra generosa concessione, ma la nostra identità (e non esito a dire: superiorità) culturale. Se la negassimo ci suicideremmo.
C’è un limite? Certo, vale per tutti: la legge dello Stato viene prima. Posso educare i miei figli secondo le mie convinzioni, ma non posso costringerli, neanche se minorenni. Quelle ragazze che si ribellano e chiedono aiuto alla legge sono il nostro trionfo. Sempre che la legge sappia farsi rispettare.
Non credo il problema sia l’ “integrazione”, concetto scivoloso. Circa la rivendicazione dei diritti mi pare altissima. La falla si apre sul lato scuola. Non solo per gli abbandoni, ma per il venire meno alla promessa che saranno i più capaci a fare più strada. La rabbia dei capaci disillusi è più temibile di quella del teppista troglodita, perché è fondata.
Ma quella falla colpisce tutti, senza distinzione di fede e colore. Colpisce chi si trova al margine e lì lo si lascia a languire. Colpisce italiani e stranieri. Ed è la nostra grande colpa. Non verso questo o quello, ma verso tutti e noi stessi.
Quindi: poche dolcezze inutili, la repressione del crimine aiuta gli onesti, quella dei violenti le persone per bene, gli ascensori sociali partano dalla scuola e ai margini resti chi spera di schiavizzare gli altri per conservare le proprie rendite.