E adesso? Come utilizzeremo questi benedetti 208,8 miliardi che pioveranno dal cielo grazie al Recovery Fund, 81,4 sotto forma di sussidi e 127,4 come prestiti a tassi d’interesse minori rispetto alle emissioni del Tesoro?
Sappiamo che i sussidi non piovono proprio dal cielo poiché in futuro di quegli 81 ben 55 dovremo metterceli noi. Per carità, 26 netti sono una bella somma, ma chi decide come spenderli? Già in molti reclamano un diritto ad intromettersi: chi vuole il coinvolgimento del Parlamento (di qui le commissioni di cui si va parlando) chi invece delle Regioni, come il vicepresidente dell’Emilia Romagna Elly Schlein (che ha già fatto capire come li utilizzerebbe, auspicando riduzioni di orario a parità di salario).
Eppure, il quadro dovrebbe essere abbastanza chiaro. Prima di tutto, il programma Next Generation prevede che il denaro verrà raccolto dall’Unione europea attraverso indebitamento, poi redistribuito ai singoli stati nazionali e comunque non può essere esaminato disgiunto dagli altri piani continentali (Sure per il supporto alla disoccupazione, le garanzie per i prestiti alle imprese della Banca europea degli investimenti e il famigerato Mes per la sanità). La Commissione ha già stabilito l’allocazione di queste risorse ripartendole per una lista di priorità, come gli investimenti su sostenibilità ambientale e digitalizzazione, programmi di protezione civile o di ricerca scientifica e così via. In più ci sono le raccomandazioni specifiche paese per paese e che per l’Italia son sempre le stesse: burocrazia, riforma della giustizia, liberalizzazioni, mercato del lavoro.
Non dimentichiamoci infine che sul Recovery Plan voterà anche il Parlamento europeo. Ogni Stato membro presenterà il Piano nazionale delle riforme che dovrà essere approvato, su raccomandazione della Commissione, dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata degli Stati, dopodiché sempre la Commissione sorveglierà l’attuazione dello stesso (per l’Italia con l’ausilio della Corte dei Conti) con la possibilità del cosiddetto freno d’emergenza se un governo europeo avrà l’impressione che un’altra nazione non rispetti i suoi impegni. Insomma, non è che si abbiano margini amplissimi di manovra a livello nazionale.
Ebbene cosa è successo finora? Il 28 luglio si è riunito per la prima volta (per la prima volta!) il comitato interministeriale per gli Affari europei che dovrebbe preparare il Piano e si sono levate voci, cui il premier Conte sembra dar supporto, per l’istituzione di commissioni monocamerali di cui una da far presiedere dall’ex ministro Brunetta, per delineare le strategie generali.
Orbene, il governo può consultare chi vuole, ma da un punto di vista del giusto funzionamento delle istituzioni è bene che chi ha il potere si prenda pure le responsabilità. Ulteriori lunghe discussioni per arrivare ad un quadro condiviso dimostrerebbero in modo palmare che le varie task force (in primis quella di Colao) e gli Stati Generali sono stati inutili esercizi di retorica in quanto non ci sono ancora idee chiare nonostante l’alluvione di slide prodotte. Le opposizioni ripetono che tutte le loro proposte sono state finora ignorate e quindi non si capisce perché dovrebbero essere approvate ora.
Come avrebbe chiosato Montesquieu, il potere esecutivo esegue appunto le deliberazioni legislative (europee o nazionali) ed infatti ogni anno presenta la legge di bilancio. Laddove ci sono competenze concorrenti previste dalla Costituzione (come nel campo della sanità) si seguono le procedure previste.
Ma è ora di rendere trasparente la situazione ai cittadini: se il Piano avrà successo e servirà a far ripartire l’economia è bene che si sappia di chi è il merito. Se non verrà accettato o la sua esecuzione contestata dai partner europei o se non avrà gli effetti sperati sarà altrettanto chiaro a chi rivolgersi.
Alessandro De Nicola
La Repubblica, 30/07/2020
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