Camperemo mille anni, ma un attimo prima di tirare le cuoia potremo chiedere a che punto sia il salvataggio di Alitalia, tanto l’evento è ricorrente, nella nostra storia. Che le cadute e ricadute, in un mondo in cui la mobilità e i viaggi aerei si moltiplicano, abbiano a che vedere con costi esagerati e operatività rachitica, in un combinato di incapacità manageriale e pervasività sindacale, è tanto evidente quanto trascurato. Si trova sempre un governo che s’esalta nel cingersi del tricolore e metterne il risultato in conto agli italiani. A questo giro il grottesco s’unisce all’orrido. Due gli elementi da considerare: le offerte e il prestito.
Scaduto il termine per la presentazione di “offerte vincolanti” si apprende che deve esserci stato un malinteso: anziché contenere vincoli per chi chiede di comprare li si pone a chi prova a vendere, sommandosi offerte vincolanti a manifestazioni d’interesse non vincolante. Esemplare, da questo punto di vista, la posizione di Ferrovie, che tradisce la sua natura spintanea: chiediamo che ci sia un partner che sappia qualche cosa di aerei, visto che noi possiamo mettere uno con paletta e fischietto in pista; che il prezzo sia basso; che i soldi prestati dallo Stato non siano restituiti e si trasformino in partecipazione azionaria. Posto che tali condizioni violano il senso dell’offerta vincolante, la legge europea e la logica, se ne deduce che i vertici di Ferrovie non avevano altro modo per dire che no, l’Alitalia non la vogliono. Significativa la posizione di Lufthansa: saremmo anche interessati, ma non in società con il governo italiano. Tanto più che quando era socio il governo tedesco le cose andarono male.
Ricevute le offerte il governo italiano, anziché rimbrottare chi osa prenderlo in giro, ha proseguito a prodursi in una pluralità disinformata di voci e idee, cimentandosi nel simpatico sport di tirar fuori nomi di possibili soci. Se tale personale governativo muore dalla voglia di amministrare Alitalia non ha che da proporsi per il posto di ceo. Tanto è libero, visto che la compagnia è commissariata.
Ora s’avvicina il 15 dicembre, data entro la quale il prestito fatto dallo Stato (900 milioni) deve essere restituito. I soldi non ci sono. L’idea di trasformarlo in partecipazione (ma a che?) è stata scartata dal ministro dell’economia, Giovanni Tria. Vero è che il professore dice diverse cose assennate e tutte immediatamente seppellite dai suoi colleghi, ma il punto è che abbonare, nei vari modi che la turpe fantasia propone, quei soldi equivale a violare il diritto europeo. Che si fa, si dice alla Commissione di farsi gli affari suoi e rispettare la nostra sovranità? Tanto quella è, quando la si reclama con questi toni: siamo sovrani e liberi di buttare dove ci pare soldi che non abbiamo e chiediamo in prestito, dandoli poi in prestito senza chiederli indietro, voi occupatevi solo di non farceli pagare troppo. Sintesi grossolana, ne convengo, ma realista.
Qui sta il peggio: come capita su altre cose, a cominciare dai conti pubblici, è vero che l’Italia proclama di volere violare le regole europee, mettendo in difficoltà la Commissione, ma è anche vero che lo fa sempre e continuamente a proprio danno: Alitalia non sarà un concorrente temibile manco se ai contribuenti italiani (anche quelli che non volano) costasse quattro volte tanto il suo ennesimo salvataggio. Quindi si tratterebbe di far rispettare le regole a tutela dell’Italia e degli italiani, nel mentre il governo del Bel Paese fa fuoco e fiamme affinché sia rispettata la propria sovrana decisione di andare in direzione opposta. Può darsi che qualcuno perda la calma e dia in escandescente, favorendo la propaganda sovranista. Più facile s’affermi una dottrina meno focosa: che si schiantino come meglio credono.
Noi, a bordo, non abbiamo la sensazione che basti allacciare le cinture di sicurezza per ripararsi dalla sicumera.
Davide Giacalone, 4 novembre 2018