Adesso l’allarme è forte e non servirà a nulla affrontarlo con lo scaricabarile. L’appuntamento con i fondi europei Next Generation EU e con il piano italiano Pnrr è decisivo per il futuro e ha implicazioni delicatissime, relative anche alla sicurezza nazionale. Fallirlo è un’ipotesi neanche contemplabile. Esibirsi quotidianamente nel dare per scontati ritardi e impossibilità è da incoscienti. Supporre di potere raccontare che la colpa è del governo precedente non è solo inutile, è anche autolesionista: due dei tre partiti che compongono l’attuale governo ne facevano parte; chi governa oggi conosceva la situazione; i controlli confermarono che non c’erano ritardi; mentre ora, purtroppo, sono anche relativi alle riforme, quindi privi di qualsiasi giustificazione. E neanche serve farne oggetto di polemiche contro il governo Meloni. Un fallimento sarebbe di tutti.
Sarebbe un disastro per diverse ragioni, dalle quali ometto l’ovvia perdita dei quattrini.
1. Risulterebbe evidente che quando l’Italia chiede di potere fare più deficit non lo indirizza agli investimenti, di cui non è capace, ma alla spesa corrente, alla dilapidazione, sicché sarebbe facile e doveroso rispondere seccamente: No.
2. Ogni richiesta di ulteriore debito comune, con destinazioni nobilissime, verrebbe ridicolizzata dall’avere sprecato l’opportunità del debito comune esistente.
3. Ogni lamentela relativa all’essere stati “lasciati da soli” susciterebbe impietosita ilarità, visto che il Paese cui i contribuenti europei volevano regalare più soldi e prestarne a tassi agevolati ha declinato l’offerta e stabilito di non saperli usare.
4. Alla prossima speculazione sui debiti sovrani, essendo il nostro il più grosso, saremo da soli e abbracciati a quello, perché saremmo stati noi a volerlo tenere alto deprimendo la crescita del prodotto interno e respingendo gli investimenti.
È talmente evidente la dimensione della tragedia da avere portato ad una inversione delle parti: governanti italiani che ripetono di non potercela fare e controllori europei che smorzano e incoraggiano. I primi cercano scuse, i secondi capiscono la gravità delle conseguenze. Se non si riesce, come si dice con linguaggio da zappatori, “a mettere a terra” quegli investimenti finirà campata per aria ogni altra pretesa.
Quindi: testa bassa e pedalare. La si faccia finita con le parole a vanvera. Si negozi quel che serve, sempre che lo abbiano capito. E, per la miseria, il codice appalti che parte da luglio è già tardi, ma la legge concorrenza che si rinvia per gli ambulanti e le svendite, non avendo il coraggio di occuparsi dei balneari, è un segno evidente di rincretinimento da demagogia elettorale: un interesse miserrimo che ferma un gigantesco interesse generale. È impressionante che non si capisca quanto la concorrenza serva non alla gioia delle gare, ma a favorire investimenti e crescita. Che se si proteggono le sacche delle piccole rendite si penalizzano le grandi innovazioni. Che se corteggi quattro corporativi portatori di voti gli italiani che possono vanno in vacanza e a lavorare all’estero. Anti nazionale è proprio questa politica cieca al futuro e tronfia di parole dal significato sconosciuto. È impressionante non si capisca che un sistema appalti funziona se funziona la giustizia, non se si mettono un centinaio di guardiani della morale. Che costano, rallentano e producono immoralità. Il ponte di Genova è stato realizzato usando le regole europee. Almeno copiate.
E se l’opposizione spera di cavarsela assistendo al fallimento governativo si sbaglia. Dall’opposizione si fanno proposte, si reclama giustizia funzionante, separazione delle carriere, si tallona il governo perché renda fatti le parole del suo ministro della giustizia, si chiede più mercato aperto e più formazione, non ci si mette a difendere le arretratezze che troncano le gambe al governo, non si difendono le corporazioni che dal governo non possono più coprire. Perché in quel modo si è uguali. E ugualmente fallimentari.