La trappola demografica. Se le nascite in Italia proseguissero il percorso di diminuzione con il ritmo osservato nel decennio scorso (a cui si è poi aggiunta l’incertezza della pandemia) ci troveremmo ad entrare nella seconda metà di questo secolo con reparti di maternità del tutto vuoti.
Se le nascite in Italia proseguissero il percorso di diminuzione con il ritmo osservato nel decennio scorso (a cui si è poi aggiunta l’incertezza della pandemia) ci troveremmo ad entrare nella seconda metà di questo secolo con reparti di maternità del tutto vuoti. Lo scenario di zero nati nel 2050 difficilmente verrà effettivamente osservato – le dinamiche reali sono più complesse di una semplice estrapolazione – i dati però ci dicono che alto (oltre il livello di guardia) è diventato il rischio di un processo di declino continuo della natalità.
E’ bene essere consapevoli che le nascite in Italia non sono solo a livello basso, ma anche posizionate su una scala mobile che le trascina ulteriormente in giù. Questa scala mobile è rappresentata dalla struttura per età della nostra popolazione, la quale, per conseguenza della denatalità passata, è in progressivo sbilanciamento a sfavore delle generazioni giovani-adulte (la fonte di vitalità di un paese). Più il tempo passa, più diventa difficile (e se continua così tra pochi anni anche impossibile) invertire la curva negativa delle nascite.
La questione non è più se riusciremo ad evitare il declino della popolazione, oramai gli squilibri strutturali interni (nel rapporto tra generazioni più anziane e quelle più giovani, a sfavore di queste ultime) sono tali che anche nel caso di portare il numero medio di figli per donna ai livelli degli altri paesi europei, a parità di flussi migratori, avremmo comunque un numero di abitanti in maggior riduzione. Si tratta quindi di capire, nei margini di manovra che ci sono rimasti, se riusciremo ad evitare che le nascite entrino negli ingranaggi di una trappola demografica che le condanna ad una irreversibile diminuzione.
Questo scenario è quello più disastroso, perché oltre a diminuire la popolazione (con corrispondenti crescenti difficoltà a garantire servizi e condizioni di benessere minimo nelle aree interne e montane, già oggi in fase di spopolamento), ci troveremmo in tutto il paese non solo con sempre più anziani ma anche sempre meno persone che entrano nella fase della vita in cui si contribuisce alla crescita economica e a rendere sostenibile la spesa pubblica. Un circuito vizioso di questo tipo verrebbe ulteriormente accentuato dal fatto che i pochi giovani decideranno sempre più di prendere in considerazione la scelta di sottrarsi alla stringente tenaglia di indebitamento pubblico e invecchiamento
demografico spostandosi in altri paesi. Allo stesso tempo diventerà sempre più difficile attrarre immigrazione di qualità dall’estero.
Che sia diventato elevato il rischio di uno scenario di questo tipo lo si desume in modo evidente dai dati delle ultime previsioni Istat. Nello scenario mediano, quello considerato più verosimile, le nascite non arrivano a riportarsi al livello da cui sono scese nel decennio precedente (erano oltre 550 mila nel 2010), ma si limitano a tornare lentamente ai livelli precedenti l’impatto della pandemia (attorno a 420 mila), per poi però iniziare un percorso di riduzione che le vincola sotto le 400 mila. Nello scenario peggiore nemmeno tale temporanea e debole ripresa ci sarebbe. Nel percorso, invece, più ottimistico tra quelli delineati dall’Istat, le nascite arriverebbero a posizionarsi sopra le 500 mila. Un obiettivo ancora possibile, quindi, ma solo se l’inversione inizia subito e viene sostenuta in modo solido.
Il declino irreversibile delle nascite è quindi lo scenario da mettere al centro di ogni strategia di sviluppo del paese nei prossimi decenni, per anticipare e prepararsi a gestirne le conseguenze e per valutare l’impegno che siamo disposti oggi a mettere per evitarlo. In questo secondo caso l’azione non può che essere urgente e posta come obiettivo prioritario. Fare qualcosa con manovre che provano a mettere qualche euro qua e là, per poi vedere l’effetto che fa, è inadeguato e inefficace per la situazione in cui ci siamo posti.
Serve un obiettivo chiaro da raggiungere, mettendo in campo tutte le risorse e la capacità di implementazione necessarie, ma anche favorendo un consenso condiviso su risultati attesi e desiderati.
Nel mondo contemporaneo avere figli non è sentito come un obbligo e non è dato per scontato averli anche quando li si desidera. E’ una scelta libera che ha bisogno di condizioni adatte per poter essere realizzata positivamente.
Non è una scelta solitaria: serve attorno una comunità che ne riconosca il valore mettendo in campo politiche solide ed efficaci, all’interno di un clima sociale positivo. Non è una scelta indipendente dalle altre: ha bisogno di inserirsi in un processo di realizzazione personale e di benessere molto più articolato che in passato. Questo comporta prima di tutto la necessità di poter essere integrata positivamente con altre scelte. Autonomia dalla famiglia di origine e realizzazione di una propria sono strettamente dipendenti dalle politiche abitative e dalle politiche attive del lavoro per i giovani. La scelta di avere figli e quella di lavorare, non rinunciando alla propria realizzazione professionale, devono non solo essere compatibili ma diventare leva positiva reciproca una dell’altra. Indispensabili sono, su questo versante, misure sia di conciliazione che di condivisione tra madri e padri.
Questo significa, più in concreto, che la natalità non potrà aumentare se continueremo ad avere il record di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano), pari circa al 30% nella fascia 25-34 anni. Conseguenza delle fragilità di tutto il percorso di transizione scuola-lavoro che porta a posticipare in età sempre più tardiva l’arrivo del primo figlio (l’età media in cui si diventa genitori è la più alta in Europa).
La natalità, inoltre, non può che aumentare assieme all’occupazione femminile, entrambe tenute basse dalla carenza di strumenti e servizi che armonizzano impegno di lavoro e responsabilità familiari. Inoltre un secondo reddito, in presenza di conciliazione e condivisione, riduce il rischio di povertà e favorisce le condizioni economiche per avere un figlio in più.
Infine, la natalità aumenta se si rafforza anche la consistenza della popolazione in età riproduttiva, contributo che può arrivare dall’immigrazione. Ma solo una immigrazione che trova condizioni per essere inclusa e bene integrata nel sistema sociale e nei processi di sviluppo del paese contribuisce alla vitalità demografica, in caso contrario si adatta presto al ribasso ai comportamenti riproduttivi autoctoni.
Questo significa che per rispondere alle trasformazioni demografiche e alle esigenze di sviluppo del paese la quota che davvero conta è quella di arrivare a 500 mila nascite entro i prossimi dieci anni. Perché non solo ci aiuta a non condannarci ad una trappola demografica che genera squilibri irreversibili, ma anche perché può essere ottenuta solo combinando politiche familiari con condizioni che portano al rialzo anche occupazione giovanile, partecipazione femminile al mercato del lavoro, immigrazione di qualità (in grado di rinsaldare la forza lavoro nel breve periodo). Per arrivare a tale obiettivo serve tutto un paese che si muove nella stessa direzione.
Il Sole 24 Ore