La sensazione è che il Documento di economia e finanza 2024 (Def), “snello e asciutto”, abbia avuto un unico significativo effetto: lasciare con la penna a mezz’aria i tanti che si preparavano a versare fiumi di inchiostro su questa o quella cifra di questa o quella tabella. La realtà è che non c’era e non c’è molto da dire o da scrivere. Passeremo per la procedura di deficit eccessivo prima di saperne di più, grazie all’Eurostat, sul trattamento contabile dei bonus edilizi (e dei connessi crediti di imposta in essere o incagliati). Dalla Commissione europea ci arriverà, in piena canicola, qualche indicazione circa la traiettoria futura del rapporto debito/prodotto e il 20 settembre dovremo presentare il Piano fiscale-strutturale di medio termine di cui alle nuove regole europee.
Francamente, in queste condizioni sarebbe stato più che irragionevole, privo di senso, lanciarsi in elaborazioni programmatiche destinate comunque a lasciare il tempo che trovano. Del resto, non è escluso che anche altri paesi membri decidano di seguire la linea “snella e asciutta”, a conferma del fatto che un Def come lo abbiamo conosciuto in passato era in realtà francamente difficile da immaginare nell’anno di grazia 2024. Talchè, se di “incomprensibile” c’è qualcosa in tutto questo, lo è l’indignazione visibilmente artificiosa di alcuni commentatori.
Detto questo, coloro che rimangono svegli domandandosi cosa abbia mai in serbo il governo possono tranquillizzarsi. La strada – se non vogliamo finire nel fosso – è tracciata. Ed è una strada fatta da dosi massicce di prudenza, realismo e disciplina. Per un verso le prospettive di crescita sono quelle che sono, e cioè non entusiasmanti. Un tasso di crescita reale non lontano dall’1 per cento nel prossimo quadriennio non è granché, alla luce dei programmi di spesa pubblica in essere. Più che altro segnala come l’impatto dei programmi di spesa pubblica (tanto in conto corrente quanto in conto capitale) sia largamente inferiore a quanto spesso vagheggiato da tanti. Il vero problema sarà mantenere quei tassi di crescita – sia pure contenuti – dopo il 2027, e cioè quando si sarà esaurito l’impatto di breve periodo dei programmi di spesa pubblica e dovrà emergere – ammesso che esista – l’impatto di quella stessa spesa pubblica sulla evoluzione del prodotto potenziale. E’ lecito dubitare che effetti significativi in questo senso possano derivare dalle riforme più o meno in atto. Di conseguenza, passato il triennio di grazia che le nuove regole europee ci offrono (un triennio che non potrà non essere comunque segnato da un ritorno a significativi avanzi primari), qualunque esecutivo che non voglia portare il paese nel fosso dovrà garantire uno sforzo fiscale consistente al fine di rassicurare i detentori del nostro debito. L’esperienza del Superbonus chiarisce, senza possibilità di equivoci, che la tentazione di portare il paese nel fosso non è assente in larghi strati della classe dirigente di questo paese, ma è lecito (anche se forse vano) sperare che si impari dagli errori.
E’ quella tracciata l’unica possibilità? Certamente no. Così come si è immaginato un Piano Mattei, forse sarebbe il caso di riscoprire – a centocinquant’anni dalla sua nascita – un Piano Einaudi. Rigore nella gestione delle finanze pubbliche e progressivo arretramento del settore pubblico nei comparti diversi da quelli in grado di sostenere il dinamismo dell’economia. Una fiscalità disegnata in termini di efficienza più che per finalità redistributive (da perseguire, invece, per il tramite di una diversa composizione della spesa pubblica). Abbandono della risibile idea per cui sarebbe il bilancio pubblico la fonte della crescita e ampia libertà di movimento, all’interno delle regole di mercato, per il settore privato. Promozione, a tutti i livelli e in tutte le sedi, dell’impresa e del suo valore sociale.
E’ una strada che si può non condividere e che, anzi, si può legittimamente avversare. Ma se lo si fa, non ci si stracci poi le vesti se la realtà ci costringe a percorrere il sentiero della cosiddetta austerità.