L’inchiostro con cui è stato scritto il nuovo codice degli appalti pubblici è ancora fresco, ma il testo già ammuffito. Dopo l’ennesimo terremoto è tutto un fiorire di richieste di procedere in deroga, d’urgenza, senza troppi impicci. Ma perché mai, di norma, dovremmo tenerceli? Già si usano più le vie torte (vedi Expo) che le rette, perché son vicoli ciechi.
La ragione di quelle regole, moltiplicatrici di procedure e adempimenti, consiste nel pio desiderio di prevenire abusi e ruberie. Il risultato è opposto: tanto fitta è la selva burocratica che, pur di procedere, se ne giustifica l’aggiramento, creando il più accogliente ecosistema per abusi e ruberie. A quel punto, per rimediare, s’inventano garanti anti corruzione, salvo poi costatarne l’inutilità (nel migliore dei casi) o la connivenza (nel peggiore). Si dovrebbe puntare a dare più libertà, in modo da assegnare maggiore responsabilità, invece l’atteggiamento burostatalista preferisce limitare la libertà, facendo lievitare l’irresponsabilità. Non si sa mai chi sia competente e responsabile per cosa.
Sarebbe utile attenersi a quattro criteri:
1. le regole devono essere chiare, altrimenti diventano criminogene, e siccome sono troppe (anche se c’è chi va in giro a dire che il nostro Parlamento avrebbe bisogno di essere riformato in modo da farne più numerose e più spesso) si accorpi e cancelli;
2. il professionista che sovrintende ai lavori è giusto guadagni in proporzione, ma deve esserne anche responsabile, senza che possa nascondersi dietro una catena di altri soggetti;
3. lo Stato conservi a sé il compito di controllare i cantieri, di modo che non si violino norme di sicurezza e trasparenza;
4. come anche di verificare i risultati e la rispondenza fra il progetto e la realizzazione. Quest’ultima cosa è particolarmente preziosa nel campo degli appalti pubblici, ove è sconosciuta l’analisi e il controllo di costi e benefici.
Ciò ci consentirebbe di avere migliore Stato dove serve (regole e verifiche) e più libero mercato dove conviene. Le opere pubbliche sono più facili e convenienti dove lo Stato è snello e ha costi bassi, mentre arrancano e degenerano quando ingigantisce.
La ragione di quelle regole, moltiplicatrici di procedure e adempimenti, consiste nel pio desiderio di prevenire abusi e ruberie. Il risultato è opposto
Dal terremoto si può ripartire. Messa da parte la grottesca, e falsa, sceneggiata delle presunte dispute con la Commissione europea (non solo i fondi per il soccorso e la ricostruzione sono fuori dalla contabilità relativa al rispetto dei parametri, ma ci è stato suggerito di usare anche i soldi del piano Juncker, che non sono gran cosa, ma siamo anche quelli che ne prendono di più: soldi europei a disposizione dell’Italia), l’intervento nelle zone terremotate deve servire a chiamare molti giovani al lavoro e molte aziende alla specializzazione.
Quel che serve alla diagnostica degli edifici, per valutarne la stabilità e i necessari interventi, oggi lo esportiamo più di quanto non lo si utilizzi all’interno dei confini. Le nostre grandi società di costruzione crescono più all’estero che in Italia. Sotto le macerie c’è il tesoro di potere creare eccellenze poi rivendibili. C’è la possibilità di chiamare e istruire giovani a spasso (uno studio di consulenza svizzero, PwC, calcola che se li mettessimo a lavorare il nostro pil crescerebbe di 9 punti, mi accontenterei della metà). Buone politiche al posto dei bonus.
A trattenerci non è il fato o la cattiveria altrui, ma le regole sbagliate che ci diamo. Dopo il terremoto del 1997 si stabilì che i contributi sarebbero stati dati solo per le prime case, in virtù del solito moralismo pauperista, per cui se ne hai due sei in colpa. Risultato: se cadono le seconde case anche le prime si trovano in un paese inabitabile. All’indomani di una scossa che si è sentita dalla Puglia alla Svizzera dobbiamo rivolgerci a tutto e tutti, per molti anni. Partendo da dove la disgrazia ha aperto un varco di buona spesa pubblica. Se lasciamo che si chiuda, vuol dire che le teste sono più friabili dei muri. Le disgrazie capitano, i disgraziati si cacciano.
Davide Giacalone, Il Giornale 3 novembre 2016