Negli Anni Cinquanta, il servizio segreto militare, Sifar, guidato dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo stilò 157mila dossier su uomini politici, imprenditori, alti burocrati dello Stato, personaggi pubblici. Ne seguirono ricatti ed intimidazioni. Quando i fatti vennero a galla, l’attenzione pubblica di appuntò su quella che allora sembrò una mole mostruosa di dati e di personalità sotto osservazione. Poca roba, nell’era del Web.
Non c’è cittadino, oggi, che non possa ragionevolmente pensare che la propria condizione patrimoniale, le proprie vicende giudiziarie, le proprie comunicazioni, le proprie spese con carta di credito e l’intero spettro delle attività svolte in Rete, curiosità, gusti e vizi compresi, sia alla portata di chiunque grazie ad un semplice click. Il nostro privato non è mai stato così potenzialmente pubblico, la nostra vita mai così esposta al rischio di gogna mediatica.
Anche per questo i politici più spregiudicati fanno da qualche anno a questa parte di tutto per infiltrare con propri uomini le agenzie nazionali che per ragioni di sicurezza permeano il Web. Anche per questo è oggi più che mai necessario avere fiducia: fiducia nel fatto che i custodi pubblici dei nostri dati personali si attengano al più rigoroso scrupolo istituzionale. Fiducia che i numeri “mostruosi e inquietanti” (sono parole del procuratore di Perugia Raffaele Cantone) degli accessi ai dati riservati custoditi, si fa per dire, dalla Procura nazionale antimafia ha fatto svanire. Ed è questo il danno più grave che una vicenda ancora per molti versi oscura ha provocato: il crollo della fiducia non tanto nella Procura antimafia, quanto nello Stato.
Da oggi, ciascun cittadino avrà buone ragioni per sentirsi nudo di fronte al potere e di conseguenza esposto ai suoi disegni, quando non ai suoi capricci. Un sentimento spaventoso. Un sentimento e un danno la cui portata sembra sfuggire alla sensibilità grillina, movimento politico non a caso nato sulla spinta della retorica orwelliana di una trasparenza assoluta. “Male non fare, paura non avere”, ha recentemente detto parlando degli imputati innocenti il procuratore Piercamillo Davigo, cancellando con una battuta feroce secoli di cultura liberale su cui si fonda lo Stato di diritto. “Male non fare, paura non avere”, ha scritto oggi il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio, concludendo un editoriale teso a minimizzare la portata delle notizie trafugate e, pare, commercializzate da un tenente della Guardia di Finanzia e chissà da quanti altri. Sfugge, evidentemente, il punto. Il punto non attiene alla portata delle singole notizie trafugate, ma all’atteggiamento dello Stato che quelle notizie dovrebbe custodire gelosamente così come gelosamente dovrebbe custodire e proteggere la libertà personale di ciascun cittadino.