Se oggi gli avvocati fondassero un partito politico lo dovrebbero chiamare Fermare il declino. Il loro, in questo caso.
Infatti, se leggiamo l’ampio studio appena pubblicato dal CENSIS sullo stato della professione legale, i segnali non sono incoraggianti e purtroppo nemmeno estemporanei.
È da anni che gli avvocati, il cui numero ormai si approssima all’enorme cifra di 250.000, si impoveriscono. Gli iscritti alla Cassa, secondo gli ultimi dati, hanno visto il loro reddito diminuire ogni anno dal 2007, a prescindere che in qualche anno il PIL sia aumentato.
Dai 51.000 euro di reddito medio del 2007 (rivalutati fanno più di 55.000) ai 38.000 del 2015: una discesa allarmante.
È pur vero che se analizziamo il dato per fasce di età la riduzione è meno accentuata, ma, essendo il numero dei giovani (cioè quelli che guadagno meno) cresciuto di molto, ciò ha ridotto il reddito medio. Tuttavia il fenomeno non può essere ignorato perché anche la funzione sociale della classe forense non gode di grande salute.
Solo per il 16% della popolazione l’avvocato è una professione fondamentale per il buon funzionamento del paese
Se prendiamo il citato studio del CENSIS scopriamo che solo per il 16% della popolazione l’avvocato è una professione fondamentale per il buon funzionamento del paese. E se il 60% ottenuto dai medici è comprensibile, lo stacco nei confronti degli ingegneri (37,7%) o dei consulenti del lavoro (21,4%) si spiega di meno.
Quando poi osserviamo cosa il pubblico pensa sia il contributo che l’avvocatura potrà dare alle questioni socio-economiche del paese, scopriamo in testa un aspetto del tutto improbabile: il 27,4% ritiene che gli avvocati possano contribuire alla diffusione della legalità (forse) e a “contrastare la criminalità organizzata”, funzione semmai di forze dell’ordine, magistratura e, per i più giovani, della scuola.
Inoltre, il 20,3% è convinto che la classe forense potrà aiutare la “stabilizzazione dei rapporti di lavoro e il maggiore inserimento dei giovani nell’occupazione”. Questa opinione la dice lunga sugli umori del paese e sulle sue fantasiose percezioni – gli avvocati servono in buona sostanza a difendere dai licenziamenti e ad assumere gente- ma è indicativa anche della scarsa considerazione dei togati.
Difatti, ultimo in classifica risulta il compito di “migliorare la capacità competitiva delle imprese italiane” con un deludente 7,6%, in linea con la fama di Azzeccagarbugli che da secoli contraddistingue la professione.
Chiedendo agli italiani chi è in grado di garantire un miglior funzionamento della giustizia, magistratura, forze dell’ordine, Corte Costituzionale, CSM, Ministero della Giustizia, tutti precedono di gran lunga l’avvocatura che precede solo il sistema penitenziario.
Il risultato peraltro contrasta con ciò che la popolazione crede possano fare i legali per migliorare il sistema giudiziario in Italia: il 70% vota per “riduzione della durata dei procedimenti giudiziali” e “riforma del sistema giudiziario “, due obiettivi che mal si conciliano con la percepita irrilevanza della professione.
La modernità dell’avvocatura, per di più, arretra. Rispetto al 2015, nel 2017 si contrae il fatturato riferito al mercato internazionale dal già misero 2,3% al 2,2% di quello totale. Quello “nazionale” cala dall’ 11,1% al 10,7% e si rafforza unicamente l’incidenza del fatturato locale che dal 74,1 passa al 75%.
Nessuna sorpresa dunque se gli eredi di Cicerone sono pessimisti: la maggioranza relativa prevede che la loro posizione economica è destinata a peggiorare nei prossimi 2 anni e solo il 27,8%, nonostante il gran numero di giovani, scorge un futuro migliore.
Cosa ci dice tutto questo? Che le lotte un po’ retrò sulle quali si sono spesso concentrati gli esponenti della professione non sono servite a niente. L’abolizione delle tariffe professionali o del divieto di pubblicità o la possibilità di costituire società di capitali per esercitare la professione legale sono stati viste come dei tabù violati o delle sconfitte patite o disastri da scongiurare, mentre si è reclamata l’introduzione di varie forme di numero chiuso.
Il problema, semmai, è la mancanza di capitali per modernizzare il modo di svolgere il proprio lavoro, accettando l’informatizzazione e la sfida dell’intelligenza artificiale come è ineluttabile.
Il poter aggregare studi e professionisti, dandogli la possibilità di stabilire in modo flessibile gli onorari (ricordiamoci la lotta all’ultimo sangue contro il patto di quota lite, vale a dire la possibilità di farsi pagare in proporzione a quanto si recupera per il cliente), di investire, di pubblicizzare le proprie capacità, sarebbero elementi che potrebbero contribuire a migliorare sia il reddito degli avvocati che la percezione che di essi hanno gli italiani.
E parlando dell’avvocatura, in realtà, possiamo fare riflessioni più generali sull’insieme delle professioni. Il “piccolo è bello”, il rifiuto impaurito della tecnologia e della “contaminazione” con il capitale di rischio, il localismo e la mancanza di una formazione moderna (quanti avvocati sanno leggere un bilancio o capire un po’ di finanza?), finora non hanno funzionato affatto.
Al punto in cui si è arrivati, rischiare di scommettere sul nuovo è in realtà diventato l’unico atteggiamento prudente da assumere: la conservazione dell’esistente è un rischio molto più grave. [spacer height=”20px”]
Alessandro De Nicola, La Repubblica 19 giugno 2017