Settantacinque anni di pace nella libertà assicurati ai suoi Stati membri, l’alleanza politico-militare più istituzionalizzata e longeva della storia, una membership passata dagli originari 12 membri che, a Washington, il 4 aprile 1949 sottoscrissero il Trattato dell’Atlantico del Nord agli attuali 32, sopravvissuta alla Guerra fredda, alla sua fine e al suo ritorno: questa è la Nato. Concepita “per tenere i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto”, è ancora uno strumento essenziale per conseguire almeno i due obiettivi tuttora essenziali dei tre enunciati sinteticamente dal suo primo Segretario generale, Lord Ismay. Con buona pace di chi ne denuncia gli scopi bellicisti, l’Alleanza resta uno straordinario strumento di pace, essenzialmente difensivo, il solo disponibile per garantire la sopravvivenza delle democrazie occidentali.
Ma non è certo tempo di esercitarsi in vuoti trionfalismi autocelebrativi. La guerra in Ucraina, soprattutto la guerra in Ucraina, sta sottoponendo la Nato a uno stress test ben maggiore di quelli rappresentati dalle molte crisi internazionali che l’hanno vista testimone attiva o protagonista. La sensazione è che, per la prima volta, la sua credibilità – ovvero la credibilità della sua deterrenza – possa essere messa in discussione dal combinato disposto della straordinaria aggressività dei suoi nemici e da divisioni sul fronte interno. Ci sono almeno tre caratteristiche inedite nelle sfide con le quali l’Alleanza si trova a doversi misurare a tre quarti di secolo dalla sua nascita.
La prima è rappresentata dalla realistica prospettiva di un informale ma sostanziale disimpegno americano rispetto alla Nato e, più complessivamente, alla relazione transatlantica. La minaccia ha un nome e un cognome: Donald Trump. Nel caso tutt’altro che remoto che il peggior presidente americano della storia dovesse venire rieletto, il rischio di una pericolosa perdita di credibilità della solidarietà euro-americana si farebbe più reale, incoraggiando tutti gli sfidanti alla leadership globale delle democrazie. Questa leadership è sempre più incerta e contestata, ma affinché ne venisse decretato ufficialmente il tramonto, sarebbe necessario proprio dimostrare che nemmeno poste di fronte a una minaccia esistenziale al loro futuro le democrazie occidentali sono in grado di mostrare un effettivo fronte comune.
La seconda caratteristica è costituita dal moltiplicarsi e dal globalizzarsi delle sfide poste all’Occidente e alla struttura politica e istituzionale dell’ordine internazionale liberale. La gravità della guerra in Ucraina non può farci dimenticare l’emergenza mediorientale, con i rischi di allargamento del conflitto e la tessitura di alleanze sempre più strutturate tra attori locali, regionali e globali e con il saldarsi di inediti allineamenti tra attori regionali che operano in quadranti anche molto lontani, ma tutti quanti uniti dalla volontà di indebolire il ruolo degli Stati Uniti (basti pensare alle relazioni tra Hamas, Iran, Russia, Cina e Corea del nord). Né tanto meno possiamo disconoscere che l’aumento della rilevanza economica, tecnologica e militare della Cina richiama inevitabilmente l’attenzione di Washington verso il Pacifico. Non è un caso che al vertice del Galles del 2014, in cui venne assunto l’impegno dei partner a investire almeno il 2 per cento del loro Pil nella Difesa, l’inquilino della Casa Bianca era Barack Obama, il primo presidente “Pacifico” degli Stati Uniti. Ciò significa che la Nato è sempre più necessaria ma sempre meno sufficiente per garantire l’ordine liberale e che, evidentemente, i paesi europei devono farsi carico seriamente del concorso efficace alla sicurezza propria e a quella collettiva.
Terza caratteristica è che, per lo meno da 15 anni, si sono palesati degli sfidanti in grado di sfruttare gli errori americani e l’inettitudine europea. Pechino e Mosca, in primis, ma sostenute da una crescente corte di clientes (dai regimi impresentabili della Corea del nord e dell’Iran a una serie di più o meno emergenti attori del vecchio Terzo mondo) che non costituiscono ancora una “coalizione di volenterosi”, ma formano già un insieme eterogeneo che ritiene comunque che le proprie differenti aspirazioni siano meglio perseguibili nel caso di un rapido declino della leadership occidentale. Non era così, ad esempio, ai tempi dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003 e della lunga guerra civile che ne seguì.
Paradossalmente, proprio la lunga ed erronea sensazione di invulnerabilità che la Nato ha concorso ad assicurare ben oltre il disfacimento dell’Urss nel 1991, certamente interrotta traumaticamente dagli attentai dell’11 settembre 2001 (i quali peraltro diedero luogo alla controversa “guerra al terrorismo”, che concorse a confondere strategie, obiettivi e allineamenti) ha contribuito a narcotizzare le opinioni pubbliche europee rispetto alla possibilità del ritorno della guerra di aggressione sul Vecchio continente e alla sua natura di minaccia esistenziale per la sicurezza delle nostre istituzioni e alla natura liberale delle nostre società aperte. Parallelamente, la stucchevole e autocelebrativa retorica dell’Unione europea come “potenza civile”, unico gigante erbivoro in un mondo popolato di carnivori, ha fatto sì che lo sviluppo dell’Unione vera e propria, che di fatto si realizza in concomitanza con la fine della Guerra fredda e con i successivi allargamenti della Nato, si realizzasse nella condizione di espungere il tema della Difesa e della sicurezza comune dagli obiettivi e dai compiti concretamente perseguiti e realizzati dalla Ue. Per meglio dire, ha fatto sì che la distanza tra le dichiarazioni altisonanti e gli atti concreti si allargasse vieppiù, con la conseguenza ulteriormente nefasta di abituare le opinioni pubbliche europee a rimuovere il tema della sicurezza (e del suo costo) dai propri calcoli costo-beneficio.
Ecco che allora i cosiddetto “Piano Stoltenberg” (la proposta di istituire un fondo di 100 miliardi di dollari da impegnare in un quinquennio per garantire un sostegno militare all’Ucraina certo nel tempo) non rappresenta semplicemente uno stratagemma (sicuramente concordato con l’Amministrazione Biden) per sottrarre la politica occidentale verso Kyiv ai possibili esiti nefasti delle elezioni presidenziali americane (Trump) e di quelle europee (sovranisti e putiniani vari), ma implica un aumento di soggettività dell’Alleanza medesima, le cui strutture istituzionali si farebbero così promotrici di iniziative da sottoporre agli Stati membri invece che rappresentarne il semplice strumento di coordinamento delle decisioni assunte nelle 32 capitali.
La sfida più grande che attende però la Nato (e l’Unione) è quella di contribuire a una cultura politica della responsabilità e del realismo liberale nell’ambito della sicurezza comune. Se oggi il comparto industriale di Stati Uniti ed Europa riesce a malapena a garantire la produzione di un milione di proiettili da 155 millimetri (a fronte dei tre milioni russi) non è solo perché abbiamo un’industria della Difesa sottodimensionata rispetto alla magnitudine delle minacce, ma anche perché abbiamo eccessivamente deindustrializzato (e troppo invece finanziarizzato) le nostre economie, perché ci siamo cullati nella perniciosa illusione che le logiche del just-in-time della riduzione sistematica degli stock fosse applicabile anche a comparti critici come quelli della Difesa o dei vaccini. Così come fa spiegato con chiarezza e coerenza che garantire la capacità ucraina di resistere all’aggressione russa lo spettro di un confronto diretto. Perché la Russia non può permettersi di ipotizzare nessuna provocazione alla Nato mentre è impegnata in una guerra imperialista che non può vincere. E va ricordato che, in queste condizioni, la superiorità tecnologica occidentale nel settore aereo e navale fornisce un vantaggio decisivo all’Alleanza nel breve e medio periodo. Mentre sulle forze terrestri e nel lungo periodo investimenti maggiori e un aumento sostanziale degli effettivi sono temi da affrontare inderogabilmente e laicamente (potenziamento della riserva? riattivazione della leva?). È innanzitutto una battaglia culturale quella che va affrontata e vinta, nella quale si abbia il coraggio di rivendicare che esistono investimenti necessari per la sicurezza comune, senza i quali le nostre società sono esposte alla minaccia dei sistemi autocratici.
L’occasione dei 75 anni dell’Alleanza atlantica, quindi, non deve ridursi a rievocazioni storiche e discorsi d’occasione, ma piuttosto costituire uno stimolo per dire chiaro e tondo come stanno le cose e quali sono i tempi di ferro con i quali possiamo scegliere di convivere oppure di fronte ai quali possiamo decidere di soccombere.