Che la classe politica, e anzi forse la classe dirigente tutta, del periodo della cosiddetta “prima Repubblica”, fosse “superiore”, più all’altezza dei suoi compiti, di quella successiva, è affermazione incontrovertibile e persino banale. Così come lo è quella, ad essa connessa, del relativamente rapido declino generale del nostro Paese, che era arrivato ad essere la quinta potenza industriale del mondo, negli anni della “seconda” e della “terza Repubblica”.
Non me la sento però di salvare in toto, e nemmeno in buona parte, gli anni precedenti alla rivoluzione giudiziario-politica del 1993-94. Né di segnare una frattura o una profonda discontinuità fra il prima e il poi, come ha fatto ieri Aldo Giannuli nel corso dell’Aperithink organizzato dalla rivista Formiche.
Ora, a parte il fatto che la storia non fa salti, in particolare mai come in questo caso si può dire, a mio avviso, che il prima era già gravido di tutte le conseguenze del dopo. E lo era non solo perché una involuzione sempre più marcata si era verificata già a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ma per un “difetto di origine” per così dire.
Questo difetto è costituito dalla Costituzione stessa su cui la Repubblica era stata fondata. Che la Carta fondamentale, così come emerse dal lavoro dell’Assemblea Cosrituente, non avesse storicamente alternative, e che fosse un nobile e persino alto compromesso fra le molto eterogenee forze politiche che davano vita al nuovo Stato, è indubbio.
Ma che quello fosse un equilibrio molto precario e gravido delle conseguenze dell’oggi, è invece aspetto a mio avviso non troppo considerato. E che su cui occorre invece riflettere. Come è noto, le forze costituenti trovarono un collante in un elemento che venne a rappresentare l’ideologia di fondo su cui si resse poi tutto il periodo repubblicano: l’antifascismo.
Dico ideologia nel doppio senso del termine: sia come orizzonte ideale, o cultura politica di sfondo, sia in quello di perimetro legittimante che assunse presto le fattezze di un dogma esclusivo ed escludente (tanto che Ennio Flaiano sarcasticamente osservava che in Italia i fascismi erano due e l’antifascismo era uno di essi).
Fra le tante convenzioni implicite che ressero il primo periodo repubblicano ci furono pertanto, da una parte, quella che (per motivi geostrategici) escludeva dal potere politico centrale il Partito Comunista, che pure era stata una delle più importanti forze politiche costituenti; dall’altra, quella che imponeva al discorso pubblico ufficiale, e a quello che aveva corso nei sistemi di potere culturale, una visione evolutiva e progressista, molto sbilanciata “a sinistra”, delle cose del mondo e della società.
In Italia una visione democratica (o meglio liberale) coerentemente anticomunista, oltre che antifascista, fu nel discorso pubblico per molto tempo quasi impossibile praticarla. Si poteva essere, e in tanti furono, non comunisti, ma non si poteva essere anticomunisti.
Chi coerentemente, cioè in punta di logica (liberale), aveva il coraggio di definirsi anticomunista, veniva etichettato come “fascista” senza troppi problemi o ulteriori approfondimenti.
La conseguenza di tutto ciò è stata la formazione di una struttura mentale o di pensiero che è apparsa come spontanea e “naturale” pur non essendolo affatto. Essa ha giustificato le idee, i miti, i tic di pensiero più irriflessi, che hanno dominato il campo.
E che hanno portato a vedere la stessa Costituzione, pure quando ad un certo punto è risultata palesemente datata e “superata”, come “la più bella del mondo”. E hanno altresì portato a considerare i ritardi, veri o più spesso presunti, che l’Italia accumulava come un “tradimento” della Costituzione stessa o come l’attestazione di una Costituzione ancora “incompiuta” o “da realizzare”.
L’“ideologia italiana” si è così fatta poco alla volta anche realtà effettuale, segnatamente e simbolicamente negli anni 1968, 1969 e 1970: con la rivolta giovanile, che ha visto il nuovo nientemeno che nella vecchia tradizione movimentista di sinistra e nella contestazione di ogni principio di autorità (e autorevolezza); con l’“autunno caldo” e la successiva affermazione di una massiccia sindacalizzazione di tutti i rapporti produttivi e della stessa burocrazia statale; con l’istituzione (secondo dettato costituzionale) delle regioni con la connessa frammentazione localistica del potere e l’aumento dei centri di spesa incontrollati.
In questa storia che continua, o in questo passato che non passa, si è da ultimo inserito il Movimento 5 stelle. Il quale, a mio avviso, è solo in apparenza un fattore di novità radicale nella storia del Paese, come Giannuli, con molto ottimismo, continua a credere. A me sembra piuttosto che, almeno nella fascia di persone che l’ha votato, il movimento non sia affatto “trasversale”, come lo si voglia fare apparire.
Esso è invece il figlio ultimo e particolarmente degenere (perché nasce da ampie sacche di “mezza cultura” o incultura di massa) di quella che ho definito l’ “ideologia italiana”. Una sorta di post-sessantottismo diffuso e confuso che si richiama a un democraticismo astratto e totale che è l’esatto opposto della possibilità di affermazione di una classe dirigente. La quale, per principio, e per l’appunto, non può non formarsi che su qualche principio di autorità/autorevolezza. [spacer height=”20px”]
Corrado Ocone, formiche.net 22 luglio 2017