Commemorando le vittime di via Fani, il capo della Polizia, il prefetto Franco Gabrielli, ha affermato che «il riproporre i brigatisti in asettici studi televisivi come se stessero discettando della verità rivelata è un oltraggio per noi tutti e soprattutto per chi ha dato la vita per il proprio Paese, con un perverso ribaltamento di ruoli e posizioni». Sono parole sagge, che esprimono il nostro sconcerto e la nostra indignazione, nel vedere questi criminali impancarsi, dopo quarant’anni, ad autorevoli maestri di dottrina.
Mario Aiello ha già stigmatizzato l’altro ieri, su queste pagine, questo eccesso di gentilezza e di compiacenza mascherata da curiosità storiografica. Essendo stato, da giudice istruttore, protagonista di quel periodo lugubre, mi permetto alcune considerazioni aggiuntive.
Primo. Per anni la celebrazione dell’attentato di via Fani si è concentrata sulla figura dell’onorevole Aldo Moro. Questa interpretazione riduttiva può avere una giustificazione politica, perché dall’epilogo di quella vicenda cominciò la parabola discendente del terrorismo, che ne uscì sostanzialmente sconfitto. Ma dal punto di vista umano e civile la vita dei cinque agenti era altrettanto preziosa quanto quella del presidente, e bene ha fatto Gabrielli a ricordarne il martirio. La sorte di Moro fu più penosa perché il suo calvario fu più lungo, non perché la sua persona contasse di più.
Secondo. La parola pentimento è spesso usata in modo improprio. Lo Stato fece allora una scelta strategica spregiudicata ma vincente, ispirata proprio da noi magistrati. Le Brigate Rosse avevano ricattato il Paese sperando in una sua capitolazione, perché tale sarebbe stata la trattativa, o peggio, la scarcerazione anche di un solo detenuto in cambio della liberazione di Moro. Il governo, per fortuna, non cedette, e l’impresa falli. Fu in quel momento che iniziò la crisi dei terroristi, perché quelli più intelligenti cominciarono a dubitare della loro stessa strategia. Lo Stato comprese questa crisi e la sfruttò, proponendo la cosiddetta legislazione premiale a chi avesse collaborato, o almeno si fosse dissociato. Fu una scelta saggia, che diede i suoi frutti quando il generale Dozier fu liberato, e i brigatisti capirono che la guerra, già perduta sul piano politico, lo era anche su quello militare. E così, tra febbraio e marzo del 1982, arrestammo più terroristi che in tutti i dieci anni precedenti. Ma questa clemenza fu, ripetiamo, una decisione strategica, come lo fu la resa del nemico. Il pentimento, atto individuale e di pura coscienza, non c’entra nulla. Le Br avevano l’obiettivo di colpire un obiettivo per educarne cento: lo Stato ne liberò altrettanti per evitare altre mille via Fani. E funzionò.
Terzo. Il perdono, come concetto etico, è un’esclusiva scelta personale delle vittime e dei loro superstiti. Lo Stato non solo non è legittimato a perdonare, ma ammesso che lo faccia non può esser più benevolo del Padre Eterno. Quest’ultimo, almeno secondo la nostra santa religione, non concede affatto perdoni gratuiti. Richiede la confessione, l’espiazione, e il fermo proposito di redimersi. Perdonare ai terroristi che non abbiano assolto questi tre precetti è quasi una bestemmia di arroganza, perché significa voler esser più misericordiosi dell’Onnipotente.
Concludo. Non vi è nulla di male che stampa e televisione intervistino questi signori. Al contrario, la loro versione può essere utile per ricostruire i fatti nella loro oggettività: la Storia non si scrive in modo unilaterale. Ma queste interviste vanno fatte come le fece Leon Goldensohn, psichiatra ebreo che colloquiò a lungo con i criminali nazisti durante il processo di Norimberga: senza rancore ma senza indulgenza, come si studiano le due più gravi sciagure dell’uomo, la cattiveria e la stupidità. E soprattutto distinguendo, come giustamente ha detto Gabrielli, «chi stava da una parte e chi dall’altra».[spacer height=”20px”]
Carlo Nordio, Il Messaggero 17 marzo 2018