Dicono che Twitter e gli altri social sono agenzie private e che dunque se silenziano (tardivamente, molto tardivamente) Donald Trump non si può parlare di censura. Dicono anche che il direttore di questo giornale ha tutto il diritto di cestinare il mio articolo, se lo ritenesse legittimamente impubblicabile, e che in questo caso sarebbe del tutto improprio parlare di censura.
Vero, verissimo. Solo che una piattaforma che governa la rete in modo quasi monopolistico non è un giornale e inoltre un giornale è uno dei tanti, mentre le piattaforme sono poche. Le analogie dovrebbero essere altre. Se una casa editrice non vuole pubblicare un libro, non è censura, ma se tutte le librerie d’Italia decidono di non venderlo dopo che è stato pubblicato da un’altra casa editrice, altroché se non è censura. Se un giornale non vuole pubblicare un articolo non è censura, ma se tutte le edicole decidessero di non vendere quel giornale, è inevitabilmente censura. Se in autostrada vado a 200 all’ora non considero un abuso una sanzione molto severa, ma se l’azienda autostradale (privata ancorché concessionaria) mi impedisce sine die di percorrere la sua rete, allora il sopruso appare evidente.
Trump scrive e cinguetta cose nefande? A mio giudizio sì, ma a mio giudizio e il mio giudizio, come quello di chiunque altro, non può essere Legge insindacabile e autorizzazione all’imbavagliamento. E poi ci sarà pure una minima distanza tra il gridare (sia pur potenzialmente eversivo) ai brogli elettorali e l’assalto putschista al cuore della democrazia americana, che invece va trattato, non con la censura, ma con i mezzi molto più convincenti della Guardia Nazionale. Ma, si dice citando con disinvoltura l’unica frase infelice di un grande filosofo liberale come Karl Raimund Popper (il cui La società aperta e i suoi nemici ha dovuto aspettare 27 anni prima di essere tradotto in Italia: a volte l’autocensura conformista è peggio della censura), che non si può essere tolleranti con gli intolleranti. Si dimentica però, per dire, che tra gli intolleranti nemici della società aperta e dei totalitarismi Popper annoverava non solo i nazisti e i fascisti, ma anche i comunisti: segno di come i confini dell’intolleranza all’intolleranza siano estremamente mutevoli e storicamente precari. La ruota gira, e chi oggi sostiene il massimo rigore censorio nei confronti di parole considerate spregevoli dovrebbe ricordare che in un’altra epoca si invocò la mannaia della censura sui cosiddetti «cattivi maestri» che, predicando l’abbattimento rivoluzionario delle istituzioni «borghesi», venivano accusati di alimentare con i loro scritti la deriva terroristica. Attenzione: i cattivi su cui puntare le armi delle censura cambiano colore e aspetto, anche se non cambia la smania censoria.
La censura, peraltro, dovrebbe conservare almeno un minimo di coerenza. Se si mette la sordina al presidente americano ancora in carica per il suo incitamento all’eversione (ma a stabilire se è un reato deve essere la giustizia americana, non Twitter o ciascuno di noi) non si capisce perché si permetta all’ayatollah iraniano Khamenei, nel cui Paese continuano le impiccagioni di dissidenti e le persecuzioni contro le donne, di scrivere che «Israele è un cancro maligno in Medio Oriente che va rimosso e sradicato», e non ci vuole molta fantasia per immaginare come dovrebbe realizzarsi questo «sradicamento».
Oppure perché dittatori, caudillos o leader a forte vocazione autoritaria come i leader cinesi e russi, il presidente Erdogan e Maduro in Venezuela debbano usufruire dello spazio pubblico dei social, con post che sono molto più violenti di quelli del pur violentissimo Trump. Non c’è niente di peggio di un censore che si dice difensore intransigente di principi irrinunciabili e che pure sembra transigere con grande disinvoltura. Inevitabilmente scatta il sospetto che si tratti di principi onorati con eccessiva elasticità, da applicare rigidamente con chi è nel cono d’ombra e molto blandamente con chi invece gode di un grande e non incrinato potere. E soprattutto che si tratti di silenziamenti condizionati da ragioni contingenti di opportunità.
Ovviamente, nella brutale semplificazione che sta inquinando sempre più diffusamente il dibattito pubblico, il rischio è di passare per trumpiani se si eccepisce sulla decisione (legale ma errata) di Twitter di oscurare il profilo di Trump. Ma Tzvetan Todorov ci aveva già ammonito che è facile esser tolleranti con chi la pensa come noi. Il difficile è esercitare le virtù della tolleranza e della libertà con le forme più sgradevoli e persino ripugnanti delle altrui opinioni. Il difficile è ingaggiare una dura battaglia politica e culturale con quelle posizioni senza dover far ricorso all’aiutino della censura e della messa al bando. La superiorità della democrazia liberale non dovrebbe essere misurata su questo, anche?