La proposta del governo di cancellare la liberalizzazione delle aperture domenicali, limitandole a solo otto volte l’anno, è preoccupante. L’Italia, infatti, insieme ad altri 16 Paesi europei gode di una libertà della quale non c’è motivo di privarci.
Andiamo con ordine.
In primis, la misura restrittiva, lungi dal salvare la famiglia italiana (ovviamente non ci sono indagini empiriche né sociologiche a supporto della boutade sulla distruzione del focolare domestico a causa della libertà di apertura), sarebbe liberticida e arbitraria. Liberticida perché nessuna legge oggi obbliga ad aprire la domenica. Chi vuole lo fa, altrimenti chiude la saracinesca. Anche i lavoratori hanno una serie di guarentigie: rimane il riposo settimanale, contratti collettivi possono prevedere situazioni migliorative, sono obbligatori una maggiorazione di compenso e un congruo preavviso e molte categorie (i genitori di bambini sotto i tre armi, chi assiste portatori di handicap o persone non autosufficienti così via) sono comunque esenti. Inoltre, rimangono libere le festività intrasettimanali tipo Natale e Capodanno, salvo accordo tra le parti.
Peraltro, la proibizione sarebbe del tuttocasuale: ristoratori, turisti, poliziotti, medici, nfermieri, attori, dipendenti di servizi pubblici come acqua, luce, gas, conducenti di mezzi pubblici steward dcllo stadio, badanti, edicolanti, sportivi professionisti, adetti a esercizi di svago e cultura (cinema, parchi giochi, teatri, palestre, musei), casellanti, rider, commercianti di località turistiche c molti altri lavorano pure i giorni festivi senza battere ciglio. Perché solo alcuni esercizi, spesso gestiti da lavoratori autonomi, dovrebbero chiudere i battenti? Qual è la differenza tra il gioielliere e il commercialista, che invece può stare chino sui bilanci anche il Primo Maggio?
Dove sarebbe l’utilità sociale, prevista dalla Costituzione per limitare l’iniziativa privata, nell’impedire a una cooperativa di ragazzi di aprire un negozio di domenica? Quando mai alcune città potranno sfruttare la loro vocazione turistica se proprio a loro capita la sfortuna di non essere nell’elenco? Come si vede, l’arbitrio capriccioso del legislatore sarebbe massimo, anche nel negare alle famiglie di poter fare insieme lo shopping domenicale.
Veniamo all’aspetto economico. Avere la possibilità di fare acquisti in qualsiasi giorno della settimana aumenta i fatturati e crea opportunilà di lavoro. In un Paese come il nostro, con 60 milioni di turisti stranieri che lo visitano ogni anno (e non vanno lutti a Riccione, ma magari a Brescia), restringere la loro capacità di spesa è un atto iper-tafazziano. Gli studi economici (ad esempio degli economisti Bossler, Genakos e Skutlerud) hanno sempre confermato, pur in contesti diversi, un aumento dell’occupazione a seguito di una liberalizzazione. D’altronde Confimprese e Federdistribuzionc stimano una perdita da alcune decine di migliaia fino a 400mila posti di lavoro, un’enormità.
Il provvedimento, oltre tutto, non tiene conto che Amazon e i suoi consimili di proprietà estera potranno consegnare tranquillamente merci la domenica, incrementare i profitti su cui pagano legittimamente meno tasse degli italiani al nostro fisco ed erodere ulteriori quote di mercato alla distribuzione tradizionale. Bel colpo! Insomma, una controriforma siffatta, porterebbe disagi e danni economici senza salvare i piccoli esercenti, i cui problemi economici non sono le aperture festive, ma la loro incapacità cronica di consorziarsi e cooperare, le tasse, l’economia stagnante e l’avanzare impetuoso della tecnologia.
Alessandro De Nicola, La Repubblica 10 settembre 2018