Biblioteche ed archivi non si prestano ai traslochi. In cinquant’anni la fondazione Einaudi di Roma ne ha conosciuto soltanto uno, da piazza in Lucina al largo dei Fiorentini.

La prima sede fu scelta nel 1963 da Giovanni Malagodi, che nelle cose cui teneva curava di persona ogni dettaglio. Poche stanze nel palazzo all’angolo del Corso, all’ingresso lapidi estratte dal tempio di Giunone Lucina. Nel palazzo hanno abitato in antico cardinali e principi; e quale inquilino all’inizio dell’Ottocento il giovane Massimo D’Azeglio, sceso per la prima volta nella Roma pontificia insieme al padre, diplomatico del regno sardo presso la Santa Sede. La sede della fondazione era angusta e semibuia. Però si poteva scendere per colazione al piano nobile fra gli affreschi secenteschi del circolo degli Scacchi; e dall’altra parte del Corso c’era in via Frattina 89 la sede del Partito Liberale, cui la fondazione era legata dall’ombelico.

Nel corso degli anni i depositi cartacei crescevano, e ancor più il costo degli affitti intorno al Parlamento. Infine Franco Chiarenza affrontò l’impresa dello spostamento in riva al Tevere nella dipendenza del palazzo Sacchetti, nella sede attuale che anch’essa ormai si è fatta stretta. Il Parlamento è lontano, in senso geografico e non soltanto metaforico. In compenso nei giorni fortunati si riesce a parcheggiare sulla riva destra, e traversando il ponte Amedeo si possono osservare i cormorani che pescano nell’inquinamento del fiume sacro.

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Quantunque abbia subìto un solo trasloco, l’archivio storico della fondazione deve avere più di una lacuna. In fondo la croce e delizia dei ricercatori è congetturare su cosa potrebbe trovarsi nei faldoni che mancano dagli scaffali. Quando Domenico Bruni mi ha chiesto di ripercorrere la vita della fondazione nei suoi primi cinquant’anni ho immaginato per un momento di ricostruirne la continuità nei nomi e nelle opere. Ci ho lavorato un paio d’ore, il tempo sufficiente per rinunciare alla pretesa. Rita Damiotti mi ha tuttavia procurato
la sequenza dei consigli di amministrazione a cominciare dal fascicolo notarile che registra l’atto costitutivo, 10 dicembre 1962.

Il Partito Liberale vi è rappresentato nelle persone di Aldo Bozzi e Vittorio Badini Confalonieri. Seguono decine di banche, associazioni industriali e imprese fra le quali Malagodi aveva raccolto il capitale complessivo di novanta milioni. Al giorno d’oggi non solo i personaggi sono scomparsi per legge di natura, ma anche gli istituti che essi rappresentavano sono in gran parte introvabili per le metamorfosi ed aggregazioni avvenute nel mondo finanziario. Rimane quale primo ed assiduo socio della fondazione la Banca d’Italia rappresentata nell’atto costitutivo da Antonino Occhiuto. Alla richiesta di adesione la banca allora governata da Guido Carli e diretta da Paolo Baffi deliberò di accettare, come è scritto nell’atto, “in omaggio all’insigne Maestro che ne guidò le sorti nell’immediato dopoguerra”.

Fra i consiglieri della fondazione negli anni Sessanta compaiono nomi illustri del vecchio mondo liberale; alcuni ho avuto la fortuna di conoscerli, come Leonardo Albertini, nella sua casa ospitale sugli scogli dell’Elba, ed Enzo Storoni, forse il solo epigono della cerchia del Mondo rimasto nel partito dopo la infausta scissione del 1955.

I primi presidenti della fondazione furono dal 1963 al 1967 Gaetano Martino, poi per un breve periodo fra il 1967 ed il 1969 lo storico Ruggero Moscati, e dal 1969 al 1978 Vittorio Badini Confalonieri. Martino e Badini hanno una collocazione di primo piano, ancora quasi tutta da scrivere, nella storia del Partito Liberale Italiano. Rappresentavano nella Camera dei Deputati le due province dove il partito conservava per tradizione le basi elettorali più consistenti, Messina e Cuneo. Entrambi personalità di alto prestigio nel mondo europeo ed internazionale, furono più volte ministri.

Fra l’attività parlamentare e politica del partito e l’attività culturale della fondazione il filo allora era diretto. I convegni e le pubblicazioni della fondazione riguardavano anzitutto, sulla traccia ancora recente delle “prediche” einaudiane, la materia economica; ma non soltanto. Un tema ricorrente concerneva l’abolizione del valore legale dei titoli di studio, anziano coniglio che ancora oggi i nuovisti estraggono ogni tanto dal cappello delle sorprese.

Talvolta era la fondazione a farsi depositaria di cognizioni acquisite nella prassi politica. Il documento più interessante in tal senso è un fascicolo ciclostilato che contiene la bozza del libro bianco sulla spesa pubblica, predisposto da Malagodi quale ministro del Tesoro nel governo Andreotti. Il fascicolo porta la data del 25 giugno 1973. Il governo cadde il 7 luglio e il libro bianco non fu mai dato alle stampe. Forse quel ciclostilato è l’ultima copia accessibile.

Sarebbe peraltro riduttivo attribuire alla fondazione Einaudi nei primi anni la funzione, come allora usava dire, di cinghia di trasmissione del partito. Lo statuto dettava come scopo principale l’assegnazione di borse per studi all’estero a giovani economisti, che venivano personalmente seguìti dal primogenito del Presidente, Mario Einaudi. Quando nel 2002 si celebrò il quarantennale della fondazione furono invitati come relatori il rettore della Bocconi, Carlo Secchi, e la presidente dell’ISAE, Fiorella Kostoris, entrambi borsisti della fondazione negli anni Sessanta; e come borsisti avevano iniziato le ricerche di economia anche Fabrizio Barca, Mario Monti, Annamaria Tarantola ed altri personaggi destinati ai piani alti della vita pubblica.

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Un altro profilo importante nei primi anni della fondazione furono le ricerche di Ercole Camurani sulla storia del movimento liberale nella Resistenza e la bibliografia del Partito Liberale Italiano, di cui danno conto in altra parte del libro Domenico Maria Bruni e Giovanni Orsina. Solo in anni recenti, con la direzione di Orsina, la ricerca e documentazione sulla storia del Partito Liberale è ripresa mentre la memoria dei fatti lontani rimane nella cerchia ristretta, e di anno in anno decrescente, dei testimoni diretti.

Quanto ai fatti recenti, il terreno emerso dall’eruzione del 1993 scotta ancora, ma gli studiosi sono già in movimento per storicizzarlo. Anche in campo liberale sarà il caso di cominciare a pensarci perché tutto il secolo scorso, il nostroNovecento, attende ormai di essere consegnato alla storia, crocianamente non giustiziera ma giustificatrice.

Ritorniamo agli anni Settanta. Nel 1978 la presidenza passò all’economista Franco Mattei, poi dal 1985 al 1990 a Giancarlo Lunati. Con la presidenza di Lunati fu assegnato l’incarico di direttore a Salvatore Carrubba che aprì la finestra al vento atlantico con la presentazione dei teorici del nuovo liberalismo economico, la pubblicazione di Nozick, i convegni su Hayek, le ricerche sulla spesa pubblica, gli incontri internazionali promossi da Angelo M. Petroni. Dal 1983, con la rivista Economia delle Scelte Pubbliche, il presidente del comitato scientifico Domenico da Empoli importò nel dibattito culturale la Public Choise di Buchanan e Tullock.

Il neoliberalismo di impronta anglosassone degli anni Ottanta trovava attenzione ospitale nei supplementi monografici del giornale liberale l’Opinione curati da Paolo Battistuzzi e Rossana Livolsi. Se la loro collezione si è conservata, vi si possono riscoprire molti degli argomenti e dei nomi che segnarono il revival neoliberale degli anni successivi.

Sul finire degli anni Ottanta e poi nei Novanta argomento centrale nei lavori della fondazione fu la libertà di concorrenza e il nome che non si può ricordare senza rimpianto è quello di Franco Romani. Partendo dai classici testi einaudiani contro i monopoli collaborammo insieme ai fondamenti della legislazione antitrust, in ritardo di un secolo rispetto all’ordinamento americano.

Amico nel significato raro del termine, Franco mi faceva carico di aver definito pubblicamente una frangia lunatica gli anarco-capitalisti del Nevada e dintorni, cui il suo spirito anticonformista riservava un quasi inconfessato goût de tête. Franco usava passare i pomeriggi della domenica al telefono, e furono quelli gli anni in cui la suoneria dell’apparecchio era per me un segnale non di intrusione ma di amicizia.

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La cultura neoliberale che anticipava per latitudine la globalizzazione incipiente contribuì ad allargare il respiro della fondazione rispetto al partito, impegnato in quel tempo a misurarsi con le responsabilità del governo pentapartito, che per la prima volta nella storia metteva liberali e socialisti
intorno al tavolo di palazzo Chigi. Nel 1984 si rinnovò lo statuto tagliando il cordone ombelicale che assegnava al segretario del PLI il posto di diritto nel consiglio di ammi nistrazione, e si definì per la fondazione lo scopo di “diffondere specialmente fra i giovani l’interesse per lo studio dei problemi politici ed economici, con particolare riferimento ai loro presupposti storici ed alla loro incidenza sulla vita sociale”. A rileggerla, la definizione appare piuttosto vaga e quasi evasiva, ma si rivelò utile dieci anni dopo per preservare la fondazione dal collasso del sistema invalso per mezzo secolo, dal 1943 al 1993, che portò alla implosione dei partiti storici e fra essi del Partito Liberale. Restò come sola affiliazione politica la adesione agli istituti di ricerca dell’Internazionale Liberale.

Vennero gli anni del bipolarismo che tagliava trasversalmente l’habitat liberale come un’autostrada può tagliare un borgo antico, rendendo invalicabile la separazione fra i vicini delle due parti. Nel nuovo sistema i liberali si divisero scegliendo militanze differenti, o nessuna. Dopo qualche discussione, e non senza qualche costo in termini di relazioni esterne, la fondazione scelse la strada non della neutralità ma della imparzialità.

La distinzione rievoca alla lontana il lessico di Norberto Bobbio. Non la neutralità, poiché la fondazione Einaudi ha fondamento e orientamento nella cultura liberale. Ma imparzialità, in quanto proprio i connotati della cultura liberale non conducono ad opzioni di parte politicamente predeterminate.

Negli anni in cui la denominazione liberale era sottoposta da ogni lato ad un processo inflativo destinato a vanificarne il titolo, il ristretto sodalizio della fondazione si arroccò sulla regola einaudiana di offrire un luogo di libera discussione a quanti fossero disposti a lasciare in corridoio gli schematismi
preconcetti per misurarsi su analisi razionali.

L’imparzialità senza neutralità non prometteva né promette rendite di posizione, e nel ventennio della cosiddetta seconda repubblica le risorse della fondazione sono risultate più di una volta scarse al confronto con i mezzi delle associazioni e fondazioni proliferate nel nuovo sistema politico.

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Custode morale della fondazione dai suoi esordi e tesoriere delle sue modeste finanze era in quegli anni il consigliere della Corte dei Conti Dante Pelosi, già consigliere giuridico di Salvatore Valitutti.

Anna Maria Sarti, che aveva partecipato agli esordi della fondazione già con la presidenza di Vittorio Badini Confalonieri, nella funzione onnicomprensiva di segretaria particolare riuscì a sopportare la mia ipocondria fino al 2007, quando ebbi l’onore di trasmettere l’incarico di presidente a Roberto Einaudi.

Nel libro è riassunta almeno nei tratti principali l’attività compiuta negli anni Novanta e nel primo decennio del duemila intorno al tavolo sormontato dalla gigantografia di un ironico Einaudi in abito da cerimonia. Un’opera di volontariato affidata alla dedizione disinteressata dei consiglieri e segnatamente del vicepresidente Franco Chiarenza e del presidente del comitato scientifico Domenico da Empoli. Qui si richiede non di documentarne tutti i passaggi, cosa che non sarebbe possibile; ma di indicarne il filo conduttore, che si è mosso lungo due versanti: verso la memoria e verso il futuro.

Verso la memoria della tradizione liberale, con l’archivio, le pubblicazioni, le celebrazioni onorate dalla presenza dei Presidenti della Repubblica: nel 1998 Oscar Luigi Scalfaro per un convegno di studi einaudiani, nel 2002 Carlo Azeglio Ciampi per un convegno di studi crociani, e ultimamente Giorgio Napolitano, che ha ospitato al Quirinale la mostra allestita da Roberto Einaudi, poi trasferita nelle maggiori città d’Italia.

Ma anche verso il futuro, con gli studi e convegni nelle materie dell’istruzione, dell’informazione, delle autonomie regionali, della costruzione europea, le scelte pubbliche di cui Luigi Einaudi fu geniale precursore; e gli osservatori su scelte pubbliche maturate ben dopo l’età einaudiana, quali le nuove fonti energetiche, i nuovi mezzi della comunicazione, le biotecnologie e la bioetica.

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A fianco delle attività statutarie venne a formarsi, con la presidenza prima di Giuseppe Dall’Ongaro poi di Ludina Barzini, l’Associazione degli amici, animatrice di conferenze prestigiose quali quelle promosse da Mario Lupo prima al caffè Greco ed ora all’oratorio del Gonfalone. L’infaticabile segretario dell’associazione Enrico Morbelli ne fece il ponte di comando della eclettica scuola di liberalismo, che è approdata di anno in anno in una decina di città.

Molti altri fatti e nomi andrebbero richiamati, ma quando ci si lascia andare ai resoconti retrospettivi vengono piuttosto alla mente le cose che potevano essere e non sono state. Fra quelle l’idea, eccedentaria rispetto alla attività normale della fondazione, di una storia letteraria che non c’è, la storia della cultura liberale nella letteratura italiana della Repubblica. Doveva esserne estensore Giulio Cattaneo, che immagino l’avrebbe iniziata dal “gran lombardo” Carlo Emilio Gadda, suo vicino di tavolo nella redazione mitica della RAI. Il progetto non andò oltre le nostre conversazioni serali. Ciò che rimane di Cattaneo nelle pubblicazioni della fondazione è soltanto la postfazione agli scritti di Pompeo Biondi.

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Torniamo al punto. Adesso si va costituendo, se così piace rà all’autorità di governo, un comitato congiunto fra le fondazioni di Torino e di Roma per l’edizione nazionale degli scritti di Luigi Einaudi.

Fra quelle decine di migliaia di fogli a stampa, torna in mente l’ultima pagina delle Prediche inutili, che è intitolataConcludendo: quasi un testamento, che si chiude con la parola “patria”.

A rileggerle, le conclusioni delle Prediche rinforzano l’idea che Luigi Einaudi meriti di essere considerato non solo come scienziato della finanza, ma anzitutto come “moralista” ossia cultore delle scienze morali nel senso più ampio del termine.

A rafforzare l’idea è lo stesso Einaudi, che avverte di voler “toccare i problemi discussi secondo l’ordine della loro degnità”. E l’ordine della degnità colloca al primo posto “il problema religioso”, dove Einaudi si sofferma sulla libertà di predicazione dei sacerdoti; e peraltro mostrandosi preoccupato dalla moda dei giovani preti “dell’essere moderni, progressivi, epperciò del rendere omaggio agli ideali del comunismo e del socialismo” esorta i prelati a “far studiare seriamente ai seminaristi la teoria e la storia delle dottrine economiche”.

Seguono nell’ordine della degnità la libertà di pensiero, quindi in primo luogo di insegnamento, dove Einaudi ritorna sull’abolizione del valore legale dei titoli di studio, spiegando come esso consacri di fatto il duopolio fra Stato e Chiesa, oppure le licenze e le lauree spacciate per lucro agli immeritevoli da diplomifici privati che “in un regime di libertà non potrebbero sopravvivere”.

Dopo la libertà di religione e la libertà di insegnamento e apprendimento, viene al terzo posto l’indipendenza nazionale, salvaguardata dall’alleanza fra le democrazie occidentali; l’opzione senza riserve per l’alleanza atlantica si accompagna nel Concludendo di Einaudi al richiamo verso il federalismo
europeo ed alla previsione, ipotetica ma profetica, che ai colossi americano e russo della guerra fredda possano in futuro “diventar pari la Cina, e più in là forse anche l’India”.

Solo a quel punto entrano nella graduatoria, che per Einaudi è sempre una graduatoria “spirituale”, le materie economiche, ossia le classiche libertà einaudiane del lavoro, del risparmio, dell’impresa, del rischio e del profitto. In materia economica le conclusioni si concentrano sulla lotta contro i monopoli, che Einaudi aveva affrontato senza successo nell’Assemblea Costituente. Ma di passaggio l’argomento offre ad Einaudi il destro di sbarazzarsi in forma definitiva del fantoccio del liberismo inteso come “assenza di vincoli statali, di norme coattive”, e di ribadire che “la linea di distinzione si deve porre non fra chi vuole e chi non vuole l’intervento dello Stato nelle cose economiche; ma fra chi vuole un certo tipo di intervento e chi vuole un altro tipo”; non l’intervento dirigista e protezionista, ma l’intervento “per fissare le norme di cornice entro le quali le azioni degli uomini possono liberamente muoversi”. Il liberalismo di Einaudi (termine ch’egli esplicitamente preferiva alla nozione di “liberismo”, ritenuta riduttiva) non faceva credito all’anarchismo dello Stato minimo e al libertarismo del “tutto è lecito”.

Per le fondazioni di studi politici l’ortodossia verso i propri eponimi può fissare un vincolo o un limite. Al contrario, la fondazione intitolata a Luigi Einaudi può attingere dal suo pensiero un repertorio che tiene insieme la sorprendente attualità dei polemisti e la continuità dei classici, affrancati dall’usura del tempo.

Valerio Zanone

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