Con le nuove tecnologie la difesa diventa un’utopia

Con le nuove tecnologie la difesa diventa un’utopia

Gli eclatanti casi giudiziari degli ultimi giorni confermano la irreversibile trasformazione che ha avuto la giustizia penale nel nostro paese: un insieme di elementi combinati tra loro hanno trasfigurato il processo giudiziario finendo per alterare i principi fondamentali del sistema penale e le garanzie individuali.

Si tratta di un cocktail micidiale i cui ingredienti sono: 1) la forza dirompente della tecnologia, 2) la violazione sistematica del principio di innocenza, 3) la condanna sociale che l’indagato subisce prima della sentenza definitiva, 4) la previsione da parte del legislatore di nuovi reati vaghi e fumosi e 5) la evidente compressione del diritto di difesa. Questi elementi, uniti tra loro, generano un sistema giudiziario spaventevole in cui il malcapitato di turno può venirne solamente stritolato. Una volta avviata la macchina della giustizia, indipendentemente dall’esito del processo, questa inevitabilmente travolgerà l’imputato.

La tecnologia consegna dei superpoteri agli inquirenti: intercettazioni attuate con le più sofisticate ed agguerrite tecniche che non risparmiano nemmeno un sospiro del controllato di turno. Cimici in ogni luogo, microfoni che si attivano a distanza che registrano conversazioni anche lontane, invisibili e potentissime telecamere nei luoghi pubblici, negli uffici e persino nelle dimore, trojan che trasferiscono agli inquirenti tutto ciò che è registrato o custodito all’interno di cellulari e computer, compreso la posta elettronica verso la quale secondo i principi costituzionali, a dispetto dell’orientamento della Cassazione, dovrebbe essere accordata la garanzia della segretezza e della inviolabilità.

Il secondo elemento che influisce nella trasmutazione del processo è la violazione sistematica del principio di presunzione di innocenza. Ogni caso giudiziario di rilievo è presentato sin dalle sue fasi iniziali all’attenzione dei media con le conferenze stampa da parte della Procura procedente, che, con tono trionfante e compiaciuto, presenta al pubblico il risultato raggiunto come l’affermazione definitiva della giustizia sul malaffare, dimenticando però che il processo deve ancora essere celebrato. La conseguenza – e si arriva al terzo elemento – che questa pratica produce è l’effetto della condanna sociale prima ancora che giudiziaria del malcapitato di turno, che ridotto a zombie, affronterà il processo, a distanza di anni, in una condizione di prostrazione e di emarginazione e dopo aver perso irripetibili occasioni professionali. E anche se interviene il proscioglimento niente potrà essere più restituito all’imputato. Con l’introduzione nell’ordinamento di nuove figure di reato, tutte sempre più fumose e vaghe, si attribuiscono ancora maggiori poteri alle autorità inquirenti: non bastavano il concorso esterno e l’abuso di ufficio, ora il traffico di influenze ed il voto di scambio politico-mafioso dalle previsioni normative astratte, cioè dai contorni non precisamente definiti, consegnano un’ampia discrezionalità all’autorità giudiziaria nel ritenere o meno sussistente il reato.

Ultimo, ma non meno importante, è la ricorrente riduzione dello spazio per la difesa dell’imputato. La figura dell’avvocato ha perso il suo rilievo: di fronte alle risultanze della tecnologia, il difensore può solo eccepire, con scarse possibilità e con pochi mezzi a disposizione, la manipolazione delle prove: l’esistenza di sapienti tagli da parte dell’autorità inquirente, l’omissione di registrazioni utili alle tesi difensive, o la violazione del principio del contraddittorio nell’assunzione delle prove, come nel caso del Dna di Bossetti o senza particolari garanzie come per l’atleta Schwarzer nel secondo caso di doping. Altra evidente violazione del diritto di difesa è la abnorme lunghezza dei provvedimenti del giudice: quando, come in questi giorni, viene notificata all’indagato un’ordinanza cautelare di 13.500 pagine (oltre gli allegati) significa non dare possibilità all’avvocato e poi al giudice del riesame di avere la piena conoscenza degli atti di causa, giacché in 10 giorni è impossibile studiare 1.350 pagine al giorno. Ma la considerazione sul ruolo dell’avvocatura è emersa con tutta la sua drammaticità nel recente caso dinanzi al Tribunale di Asti, dove veniva pronunciata la sentenza senza aver ascoltato la difesa.

Ed allora tutti questi ingredienti uniti tra loro creano una miscela mefitica di cui oggi si nutre la giustizia che dalla rappresentazione classica della Minerva si trasfigura in un Leviatano, la mitologica e terribile creatura dalla spaventosa ed inarrestabile potenza.

 

*Professore di Diritto Comparato presso l’Università di Bergamo

articolo pubblicato sul quotidiano “Libero” il 28 dicembre 2019

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