A scanso di pericolosi equivoci – tutto vorrei tranne che ritrovarmi indagato come atto dovuto, per carità, per un reato tipo “empatia esterna” in associazione mafiosa o chessò altro – premetto e preciso che non conosco Dell’Utri né i suoi amici.
Ma ciononostante mi inuggisce da qualche giorno una sorta di fastidiosissimo rovello, esattamente da quando ho riletto di lui sui media per via delle ultime vicissitudini processuali.
Nessuna uggia, ci mancherebbe altro!, se parlassimo di condanna per appartenenza organica a una associazione mafiosa o per qualsiasi altro delitto canonico; ma invece no, non è stato così, è in carcere perché pur non essendo legato alla realtà mafiosa né da rapporto associativo né dalla sottesa affectio societatis, avrebbe però “contribuito causalmente al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione ed alla realizzazione anche parziale del programma criminoso” operando (o tentando) una mediazione tra chi era o poteva divenire vittima e alcuni suoi conoscenti, corregionali compagni di gioventù divenuti fior di mafiosi (il primo e tra i pax pericolosi quello conosciuto in una società calcistica da lui stesso fondata).
Avrebbe svolto, insomma, “funzione di garanzia” su richiesta di noto imprenditore e così avrebbe favorito un di lui “assoggettamento al pizzo”. Tento di essere più chiaro.
Cosa penserà Dell’Utri
Uggia anche perché mi domando – e non so rispondermi – nella situazione in cui si trova (che purtroppo tanti altri hanno vissuto e continuano a vivere) cosa possa pensare Dell’Utri tutte le sere prima di addormentarsi e tutte le mattine quando apre gli occhi; e quali possano essere le sue considerazioni dietro le sbarre, visto che con la massacrante carcerazione gli è stato tolto l’ultimo scampolo di vita.
E non per aver fatto parte di un’associazione di tipo mafioso (lo esclude la stessa sentenza), non per aver disinvoltamente assecondato le sue passioni culturali ricettando o addirittura commissionando antichità di provenienza illegale (il che non sarebbe apparso incredibile), non per aver attentato all’incolumità di qualcuno o aver concorso moralmente istigando a delinquere o comunque favorendo o rafforzando propositi criminosi.
No, no, no. Ma per imprevidenza circa le conseguenze di un comportamento di contesto stupidamente disinvolto. E forse anche per eccessiva fiducia nei principi di offensività e di legalità che, come è noto, presuppongono “sufficiente determinatezza” delle fattispecie normative nel descrivere/precisare sia la condotta vietata sia la relativa pena edittale in relazione al grado dell’offesa – quando c’è – a un bene giuridico.
Mi domando insomma cosa possa provare uno che, evidentemente, non è nel mezzo del cammino di vita ma un po’ più in là, e dunque non ha tempo da perdere. E ha buone ragioni – alla faccia di chi sprovvedutamente crede che il concorso esterno in associazione mafiosa esista da quando la legge Rognoni-La Torre ebbe a introdurre l’art. 416 bis c.p. – per considerarsi vittima più o meno sacrificale del pensiero dominante.
Ed è in carcere per quel reato di concorso esterno in associazione mafiosa che secondo i più non è reato ma connivenza – atteggiamento grave ma per legge non punibile – oppure ossimoro, oppure aria che qualche savonarola ebbe a friggere anni fa (chi per primo? Quando esattamente?) per dare una lezione a quei prepotenti che mafiosi non erano ma razzolavano male e pensavano di essere chissà chi.
Cosa possa provare uno che si ritrovi severamente condannato ma sia ben consapevole (è motivazione di ogni impugnazione a tal riguardo) che l’ipotizzare giurisprudenzialmente concorso esterno (art. 110 c.p.) in un concorso associativo necessariamente interno (art. 416 bis c.p.) non è soltanto temerario, ma anche logicamente impraticabile.
È un’ipotesi che precipita e si smarrisce nel vuoto del non senso e dell’elisione, per il lapalissiano principio che nell’associazione o ci sei o non ci sei, che chi non è complice non può concorrere con i complici, infine che le norme speciali (artt. 416, 416 bis c.p.) derogano per assorbimento a quelle generali (art. 110 c.p.) perché così statuiscono gli artt. 15 c.p. e 9 legge n. 689/1981.
Il calvario di Dell’Utri e di altri
Mi domando, in conclusione, che cosa Dell’Utri possa pensare del nostro paese, chiuso nella sua cella, quando accade tutto questo e nonostante le esperienze.
Che sono quelle dei calvari di Mannino, Carnevale e tanti altri che – e non appaia retorica – hanno messo a repentaglio la dignità non solo loro ma di tutti; nonostante che la Cedu, in relazione a Contrada, abbia ritenuto incomprensibile – quantomeno per i primi anni dalla sua creazione/invenzione e dunque in violazione di quell’art. 7 della Convenzione europea che pretende la chiarezza delle ragioni della condanna – la contestazione di siffatto concorso esterno.
E nonostante l’ondivago orientamento giurisprudenziale circa ipotizzabilità e perimetri, perfino di Sezioni unite della Cassazione; nonostante poco più di un anno fa la prima sezione della Cassazione abbia sentito di nuovo la necessità di chiedere alle Sezioni Unite (ordinanza 5.10.2016, n. 42043) di valutare se e come sia ipotizzabile il predetto concorso esterno; nonostante che il gip di Catania, Bernabò Distefano, nel febbraio 2016 abbia emesso un importante proscioglimento, affermando e spiegando, in sintonia con molti altri tecnici del diritto, che il concorso esterno non è previsto dalla legge ma rappresenta solo un’incondivisibile interpretazione giurisprudenziale; nonostante gli stessi procuratori emeriti della Repubblica, Caselli e Roberti, abbiano recentemente proposto – in occasioni diverse – la codificazione di tale concorso esterno per via delle accennate incertezze e giurisprudenziali e dottrinarie.
Incerto il reato ma certa la detenzione, e nel frattempo Dell’Utri non può che riflettere. Ci si augura che il suo ricorso alla Cedu venga accolto, e così gli sia fatta giustizia. Si può anche sperare che ancor prima la Corte d’appello di Caltanissetta accolga, nel corso del processo di revisione attivato da Dell’Utri, la coraggiosa richiesta di sospensione della pena avanzata dalla procura generale.
Il concorso esterno come la fata turchina
Ci si augura infine che, per un qualche miracolo, la si smetta con la sempre più imperante ipocrisia. E che di conseguenza non si esageri nel fingere di non capire che il concorso esterno, molto spesso, è come la fata turchina, pronta a intervenire con la sua bacchetta per dare severe lezioni quando si ha “certezza morale” ma mancano prove di concorso interno all’organigramma dell’associazione.
Fata ideata per non lasciare impuniti i manfani delle fasce grigie, quei furbetti che razzolano male senza lasciarci lo zampino. E che non si parli più fino alla nausea dell’articolo 27 della Costituzione e della funzione tendenzialmente rieducativa della pena quando, soprattutto per riguardo a mainstream e sdegno pubblico e spiriti vendicativi, non si esita a trattenere i condannati in carcere fino all’ultimo respiro.
E che si dica chiaramente e ad alta voce che l’opinabile e l’incerto devono restare sempre e comunque fuori dalle aule di giustizia, perché la Giustizia non è cosa da “guaglioni”, è cosa seria. Auguri a tutti i concorrenti esterni del mondo. [spacer height=”20px”]
Piero Tony, Il Foglio 15 gennaio 2018