Il nuovo governo è di là da venire. Si è quasi esaurita l’ondata delle analisi e dei commenti sui voti espressi, mentre il gioco del totoministri lascia il tempo che trova. Sarebbe già molto se avessero notizie affidabili i diretti interessati. L’elemento che sembra essere più importante e permanente, però, è la voglia di continuità. Per la composizione dell’esecutivo e il passaggio delle consegne c’è tempo, ma i segnali di continuità si colgono nel merito delle intenzioni. Ed è un fatto positivo, oltre che, malauguratamente, non consueto.
Si può sempre credere che certe parole siano strumentali e che chi le pronuncia sia un bugiardo, ma sarebbe quasi diabolico. Perché ci sono aspetti su cui il futuro capo dell’esecutivo s’era già pronunciata in campagna elettorale, restando poi ferma su quelle posizioni. Prima di tutto la politica estera e la condanna senza tentennamenti dell’invasione russa. Ma anche sul fronte interno sembra prevalere il desiderio di continuità. Ad esempio a proposito del caro bollette.
Se si ragiona di una disponibilità di ulteriori 25 miliardi, che si aggiungerebbero ai 66 già mobilitati, vuol dire che si pensa di utilizzare i 10 miliardi già accantonati dal governo Draghi, più i 10 che derivano dall’aumento del gettito fiscale (uno degli effetti della crescita dei prezzi), con i 5 raccolti tassando gli extraprofitti delle società fornitrici d’energia. Ovvero non solo ci si muove in continuità, ma la si osserva sul punto più rilevante e con maggiori conseguenze positive: niente scostamento di bilancio. Non è una novità, per Fratelli d’Italia, ma è pur sempre l’opposto di quel che reclamava la Lega. Se i rapporti di forza e la saggezza indurranno ad attenersi alla prima e non alla seconda condotta, sarà solo che un bene.
Potrà sembrare strano che tanta continuità sia garantita dalla vittoria degli oppositori del precedente governo, ma è una stranezza più politicista che relativa alle questioni concrete. Il governo Draghi ha totalizzato due anni di forte crescita economica, riuscendo a far scendere debito e deficit. Non avrebbe senso che chi raccoglie il testimone voglia rompere la continuità, perché oltre che al Paese porterebbe problemi e sfortuna a chi si appresta a governare.
A questo si aggiunga un’ulteriore questione, che non riguarda affatto solo l’Italia e neanche solo gli europei (si pensi a quel che successe negli Stati Uniti e sta succedendo in Brasile): vincere le elezioni legittima la maggioranza parlamentare e comporta il diritto-dovere di governare, ma è pericoloso dimenticarsi di non essere maggioranza nel Paese o che gli elettori sono divisi in due. Trump vinse con meno voti popolari di Clinton, averlo ignorato non gli ha giovato.
Biden ha ereditato non solo un Paese spaccato, ma con un accenno di guerra civile al debutto, sarebbe sciocco se non ne tenesse conto. Il primo turno Brasiliano racconta un paese diviso e in cui nessuno degli sfidanti raccoglie più della metà. Il democrazia non si passa il bastone del comando (che proprio non c’è), ma la guida del governo e del legiferare.
Una maggioranza parlamentare ha la possibilità di fare quel che promise, ma anche la responsabilità di non trasformare il proprio essere minoranza nel Paese in un elemento che ne incrudelisca gli scontri, radicalizzandoli. Perché per riuscire a governare il consenso dovrà continuare a costruirlo, provvedimento dopo provvedimento.
Da questo punto di vista la postura della continuità, che fin qui si mantiene, è dimostrazione di saggezza. Anche perché c’è una questione che non è di politica estera e neanche interna, ma le condiziona entrambe: l’essere parte dell’Unione europea. È il punto su cui i vincitori delle elezioni italiane sono più indeboliti da quel che dissero, fecero e votarono. La continuità è un buon approccio per superare tare che nuocerebbero all’Italia, ma anche a chi oggi ha vinto e s’appresta a governarla.