La vicenda di Pesaro non è la prima, e né sicuramente sarà l’ultima, a provocare la legge e a interrogare le coscienze intorno ai temi della cosiddetta bioetica. Essa ha però la forza del combinato disposto: richiama sia il problema dell’adozione da parte dei gay, sia quello della maternità surrogata.
La Procura, nell’imporre al comune di Gabicce Mare di non trascrivere la doppia paternità a due gemelli (un maschio e una femmina) concepiti in provetta (e a pagamento) in California da una coppia di albergatori omosessuali, ha parlato di “violazione dell’ordine pubblico”. Più radicalmente quello a cui ci si trova di fronte, in questo e in consimili casi, che è facile prevedere aumenteranno sempre più in futuro, è il disordine antropologico derivante da un processo che si colloca all’incrocio di due elementi epocali: da una parte, lo sviluppo portentoso della tecnica, in questo caso quella applicata alla riproduzione; dall’altra, il mutamento antropologico connesso alle pretese di un’individualizzazione di massa che porta a concepire ogni desiderio o aspirazione come legittimo moralmente e quindi come un “diritto”. Se qualcosa può aumentare la mia “felicità” individuale, e in più è anche tecnicamente possibile, esso è per ciò stesso lecito.
Ora, è ovvio che l’individuo a cui questa prospettiva fa riferimento non è quello classico della tradizione liberale, a cui pure dice di richiamarsi. È infatti un individuo disincarnato, sradicato da ogni contesto storico e comunitario, da ogni legame sociale, la cui libertà non è condizionata e quindi è del tutto astratta. La libertà trova infatti sempre nel limite la sua possibilità e il suo spazio di espressione, e senza di esso semplicemente non esisterebbe come libertà, per quanto ciò possa apparire controintuitivo.
L’individuo disincarnato è un uomo senza qualità, e cioè senza identità: un mero fascio di energia teso a soddisfare i propri desideri in prospettiva di una “felicità” puramente edonistica e alla fine solo agognata. Ora, che le identità individuali non siano dei moloch inscalfibili, e che siano anche in qualche misura “plurali”, è un bene, ed è dopo tutto una “conquista” della modernità, dell’uomo che si è gradualmente affrancato da vecchie ipoteche che ne comprimevano lo spirito (anche se avevano un senso nel tempo della loro realizzazione).
Portare troppo oltre il processo rischia però non solo di creare tensioni col “vecchio” che persiste, ma di arrivare a teorizzare l’identità come una sorta di creazione quotidiana, quasi come la scelta puramente estetica di un vestito da un armadio ben fornito. Si esce in questo modo da un orizzonte umano, cioè di (precaria) coerenza e organicità della propria personalità.
Sono andato troppo oltre col ragionamento? Non credo. Sono questioni filosofiche che è lecito porsi, oltre i casi particolari che ognuno dovrebbe affrontare prima di tutto secondo i dettami del buon senso. Fatto sta che la decisione dei due albergatori prima di comprare un figlio in una sorta di supermarket genetico (ci sarà stata sicuramente anche una trattativa economica), e poi di pretendere che lo Stato riconoscesse la doppia paternità, sa molto di egoistico e molto di provocatorio rispetto ad una comunità di vita che ha sue regole. Regole senza dubbio in movimento e discutibili, ma auspicabilmente da smuovere senza “colpi di mano” e senza creare danni a terzi, in questo caso i figlioletti.
“Che male faccio agli altri?” è formula ipocrita e non veritiera perché non si ha il diritto di imporre la propria visione del mondo al prossimo. Così come non è etico non considerare le conseguenze delle proprie azioni. Siamo sicuri che quei figli, che si sentiranno presumibilmente dei “diversi” nel loro contesto sociale, vivranno senza traumi una scelta che non può essere cementata solo dall’amore paterno.
L’amore, a cui retoricamente ci si richiama in questi casi, è il cuore di ogni rapporto umano, e soprattutto di quello fra padri e figli. Si tratta comunque di un sentimento labile e molto precario. Il fatto è che oggi non si ha più rispetto per la propria comunità e per le tradizioni, in nome di un razionalismo astratto che non sa che il vero cambiamento è quello che si genera in una dialettica infinita fra vecchio e nuovo, fra regole sociali e desideri individuali ma mediati.
Il rispetto per la comunità è rispetto per le sue leggi, che possono essere emendate certo ma nelle forme dovute e senza disprezzo. Il rischio è poi anche quello di un processo che teoricamente potrebbe essere senza fine: perché tutelare legalmente due padri e non di più? Perché solo i gay e non anche i transgender?….
Certo, la famiglia non è per un laico, al contrario che per un cattolico, una entità “naturale”. Ma, da un lato, le sue trasformazioni devono avvenire gradualmente, nel processo storico, non con colpi di mano “avanguardisti”; dall’altro, bisogna avere ben presente che il fine non può essere un uomo senza identità morale e sociale, completamente disincarnato, perché semplicemente costui non sarebbe più un uomo.
C’è poi un terzo elemento, meno considerato, che urta la coscienza di un liberale: la famiglia tradizionale va preservata come centrale, come unico centro di diritto, anche perché è il modo concreto con cui è ancora oggi possibile limitare il potere dello Stato. Non è un caso che l’individuo atomizzato cerchi sempri un sigillo o un riconoscimento legale alle sue pretese da parte del Leviatano, in un rapporto a tu per tu che finisce per aumentare i poteri del secondo man mano che crescono le richieste smisurate del primo.
L’omofobia per fortuna è quasi scomparsa dalle nostre società occidentali e nessuna persona sana di mente si sognerebbe di considerare oggi il gay un “diverso”. A dimostrazione che ognuno dovebbe difendere la propria libertà nella comunità, in un legame con gli altri fatto di diritti ma anche di doveri. Essendo responsabile delle conseguenze sociali delle proprie scelte e senza pretendere dallo Stato quanto solo la cultura e il legame sociale può dare.
Corrado Ocone, Il Mattino 5 luglio 2018