Cripto-locuste kazake

Cripto-locuste kazake

Da promessa a fregatura

Non si deve fare di tutte le criptovalute un fascio. Già delle banche centrali si stanno attrezzando alla loro emissione. Ci pensano anche banche commerciali. Quelle come il bitcoin, cui si riferisce l’approfondimento che pubblichiamo, creano i problemi di cui qui si parla, cui si somma la loro assoluta volatilità. Per i risparmi una promessa che può tradursi in fregatura.

La meno ecologica delle monete

A meno che non si abbia eletto a propria dimora un monastero tibetano, non si può non aver sentito parlare di criptovalute e del loro processo di ‘estrazione’: il mining. Secondo alcuni, la valuta virtuale rappresenta il futuro del sistema monetario mondiale.

Infatti, dato che le criptomonete non vengono emesse da alcuno Stato, possiedono un valore che – in linea teorica – non può essere influenzato direttamente dalla politica.

Tuttavia, al netto di valutazioni finanziarie che esulano dallo scopo di questa analisi, le monete virtuali sono fonte di numerose preoccupazioni.

In particolare, il processo di produzione dei bitcoin (la valuta più nota e più potente) implica alcune conseguenze negative. Per ottenere una frazione del prezioso token (a oggi il valore di un bitcoin si attesta intorno ai 42mila dollari), è necessario risolvere dei complessi algoritmi attraverso dei supercomputer. Queste macchine entrano in competizione con altri cervelli robotici e il primo computer che risolve l’algoritmo si aggiudica il bitcoin.

Il processo appena descritto in modo brutalmente sintetico è noto come mining. Per poter ‘minare’ con efficacia è necessario costruire enormi fattorie di server alimentate da gigantesche quantità di energia.

Infatti, secondo l’Università di Cambridge, fino a oggi sono sta ti utilizzati quasi 300 Terawattora per il mining dei soli bitcoin. Per rendersi conto della grandezza di questo numero basti pensare al fatto che l’Italia produce circa 280 TWh in un anno.

Per l’estrazione di quest’oro virtuale sono quindi necessari soltanto tre ingredienti: supercomputer, spazio e tanta, tanta energia. Fino allo scorso giugno la maggior parte delle attività di mining veniva svolta in Cina, tuttavia all’inizio della scorsa estate il Paese asiatico ha bandito dal proprio suolo qualsiasi attività legata all’estrazione di criptovalute.

I ‘minatori’ sfrattati si sono così guardati intorno in cerca di un nuovo Paese ospitante. Per molti di loro la scelta è ricaduta sul Kazakistan. Il Paese ex Urss presentava le caratteristiche ideali: il clima contribuiva al raffreddamento dei computer, l’energia era disponibile in abbondanza e a un prezzo economico, la politica locale era bendisposta. Così, come mostrato dal secondo grafico, nell’agosto 2021 il Kazakistan è diventato la base per il 18% dell’attività di mining di bitcoin.

A differenza di molte altre attività produttive, ospitare delle factory di criptovalute non porta grossi vantaggi al Paese ospite, soprattutto se l’economia locale si basa quasi esclusivamente sulle fonti energetiche.

Si stima che il consumo interno di energia in Kazakistan sia aumentato dell’8% nel 2021 contro gli aumenti del 2% degli anni passati. La politica ha puntato il dito contro le società di criptomining attive nel Paese, annunciando di voler imporre una tassa su questo tipo di attività.

Nel frattempo, però, l’aumento del consumo interno ha concorso al rincaro del prezzo del gas naturale, scintilla che ha fatto scoppiare i disordini di questi primi giorni di gennaio.

Non si può dire con certezza (non c’è una correlazione dimostrabile) che le attività di mining abbiano causato la crisi energetica nel Paese, tuttavia sappiamo che richiedono enormi quantità di energia e che il governo sembra volersene liberare. Dovranno traslocare.

La Ragione

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