Crisi automotive: è Bruxelles a mettere i bastoni tra le ruote

Crisi automotive: è Bruxelles a mettere i bastoni tra le ruote

Profondo rosso per i conti del primo trimestre di Volkswagen, grande malato della locomotiva tedesca che ha smesso di correre. Il colosso ha infatti registrato un utile operativo in calo del 40% rispetto allo stesso periodo del 2024. Anche i margini, ben al di sotto delle aspettative, si comprimono sotto il peso di due zavorre: i dazi di Trump, certamente, ma soprattutto il dogmatismo e l’intransigenza delle normative ambientali di Bruxelles, di cui l’automobile diviene sempre più l’agnello sacrificale. La crisi strutturale del settore in Europa trova conferma negli allarmanti dati di Stellantis, che ha chiuso il 2024 con un crollo dell’utile del 70% e la cui produzione italiana, nel primo trimestre del 2025, ha registrato una flessione del 35%: mai così bassa dal 1956.

Il gruppo tedesco, già impegnato in un severo ridimensionamento da oltre 35.000 esuberi, si vede ora costretto ad accantonare 600 milioni di euro per l’imminente arrivo di nuove sanzioni, causa il mancato raggiungimento degli implausibili obiettivi UE sulle emissioni di CO₂ e sulla vendita di veicoli elettrici, in un mercato ancora predominato dai motori termici, anche per l’inadeguatezza della rete elettrica e delle infrastrutture di ricarica del Vecchio Continente. Una cifra che ritrae fedelmente il salato conto dell’adeguamento all’intransigenza climatica europea: un sistema mortificante e diabolico, totalmente incurante della concreta possibilità per le aziende di adattarsi alle direttive. Infine, a infierire sulla precaria condizione del gruppo, vi sono i dazi al 25% sull’importazione di automobili europee negli States, attualmente messi in pausa da Trump, ma con cui Volkswagen ha subito una svalutazione di 300 milioni su veicoli già spediti oltreoceano.

“Stagflazione e rigidità sociale”. Così recita il sottotitolo di “Ascesa e declino delle nazioni”, opera tristemente profetica dell’economista Mancur Olson, figura chiave per lo sviluppo della teoria della public choice. Un’analisi che aderisce perfettamente all’attuale scenario europeo, martoriato da crescita asfittica, inflazione, regolamentazione opprimente e interventismo distorsivo del mercato.

“La Cina supporta l’industria, gli Stati Uniti incentivano, l’Europa regolamenta”. Questo il monito lanciato nel marzo 2024 da Luca De Meo, amministratore delegato del gruppo Renault, nella sua “Lettera all’Europa”: un grido d’aiuto a nome dell’intero segmento che, aggiunge il manager italiano, rischia complessivamente 15 miliardi di sanzioni. Infatti, nonostante l’automotive europeo generi un indotto pari al 7% del PIL continentale e impieghi 13 milioni di lavoratori, per via della rigidità ideologica di Bruxelles è attanagliato dalla pressione interna di un ambientalismo incurante delle ragioni delle aziende ed esterna, da parte di concorrenti cinesi e americani che operano in quadri normativi e fiscali non punitivi e che, al contrario, incentivano l’innovazione e la produzione.

Il risultato è paradossale: l’UE, che inquina sempre meno, costringe il suo automotive a cedere il passo all’industria del Paese più inquinante al mondo. La Cina, infatti, ha riportato un aumento delle emissioni del 262% dal 2000 a oggi. Nel frattempo, la quota di mercato europea dei veicoli elettrici prodotti nella Repubblica Popolare è rapidamente cresciuta al 25% ed è destinata a salire ulteriormente nei prossimi anni. Come il Titanic, avvertito per radio da altre navi della presenza dell’iceberg sulla sua rotta, Bruxelles sembra ostinata a perseguire ricette fallimentari, sacrificando sull’altare di una presunta sostenibilità ambientale la sostenibilità economica e la competitività del proprio tessuto produttivo

Share