A chi, come me, ha avuto l’opportunità di fare, negli anni della c.d. prima Repubblica, una qualche esperienza all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura, viene naturale di riflettere sugli accadimenti che, nelle ultime settimane, hanno coinvolto magistrati e politici, e per la verità più i primi che i secondi, tutti comunque indaffarati a pilotare le nomine apicali delle Procure secondo le rispettive convenienze.
E vien di ripensare, con qualche nostalgia, a epiche battaglie che un tempo si combattevano nel CSM per fare prevalere una linea di politica giudiziaria rispetto a un’altra, facendone discendere scelte che, se pure potevano apparire, e spesso erano, anche di parte, nulla avevano a che fare con l’interesse personale di chi se le intestava.
In tale situazione, le correnti dell’ANM, che pure spiegavano una loro forte influenza nelle scelte, erano pur sempre aggregazioni di magistrati con una comune visione del tipo di attività giurisdizionale e di organizzazione giudiziaria ritenute più utili per l’affermazione della legalità costituzionale, e questa loro caratteristica ne giustificava l’esistenza e la rispettiva strutturazione in forme associative, in cui l’interesse personale dei singoli, quando c’era, restava comunque in posizione subordinata.
E se la politica talvolta provava a intervenire, quasi mai riuscendoci, non era per sostenere questo e quello al fine di trarne qualche convenienza processuale, ma piuttosto per affermare una visione della giustizia più congeniale a una certa visione della società.
In fondo, anche l’ormai famoso scontro del 1988 sulla nomina del capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, tra chi per quel ruolo sosteneva Falcone e chi propendeva per Meli, era stato soprattutto lo scontro tra due diverse concezioni dell’impegno giudiziario, alcuni sostenendo la
necessità dell’organizzazione in pool di magistrati esclusivamente impegnati nelle indagini antimafia, e quindi l’individuazione del dirigente in ragione dei meriti acquisiti sul campo, e altri ritenendo che ogni magistrato dovesse occuparsi indistintamente di tutti gli affari penali, con inevitabile ricaduta negativa sull’efficienza del contrasto antimafia.
In quel dibattito, s’inseriva poi, in termini chiaramente strumentali, l’individuazione del criteri sulla cui base operare la scelta, alcuni sostenendo che dovesse prevalere il merito a prescindere dall’anzianità, e altri invece sostenendo che andasse privilegiata l’anzianità purché senza demerito.
In questa, come in tante altre occasioni, il CSM aveva finito per diventare una sorta di terza Camera della Repubblica, in cui si dibattevano, in chiave essenzialmente politica, le vicende del Paese che in qualche modo coinvolgevano l’amministrazione della giustizia; insomma, una sorta di surrettizia trasformazione del CSM da “istituzione di alta amministrazione” a “organo di autogoverno”.
Una definizione, quest’ultima, che non mi ha mai convinto proprio per le sue implicazioni politiche, posto che il CSM era, come è, pur sempre costituzionalmente destinato a decidere su «assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati»; un’agenda, questa, di natura essenzialmente amministrativa, che con la politica aveva e ha poco a che fare, ma che al contempo ha costituito nel tempo, e deve continuare a costituire, uno scudo eretto a difesa dell’autonomia e dell’indipendenza dei singoli magistrati rispetto alle influenze politiche sempre in agguato.
In tale contesto, anche le singole correnti associative avevano una loro ragion d’essere, proprio perché erano nate per affermare, confrontandole colle altre, specifiche idee sul modo di concepire l’attività dei giudici in termini coerenti coll’idea di società coltivata da ciascun magistrato, che non per questo cessava di essere un cittadino al pari degli altri.
Ed era così anche naturale, che le correnti finissero per avere la loro proiezione negli organi associativi, e poi, a cascata, nell’elezione della rappresentanza consiliare e nell’organizzazione degli uffici interni del CSM, creando un circuito virtuoso che consentiva di maturare, via via, una specifica esperienza nella trattazione dei compiti di alta amministrazione disegnati dalla Costituzione.
Sta di fatto che nella c. d. seconda Repubblica le opzioni politiche di allora, basate sulle convinzioni ideologiche, tutte parimenti essenziali in un sistema di democrazia liberale, sono sparite, venendo sostituite da diverse opzioni basate su mere convenienze di gruppi che si sono via via aggregati o disciolti avendo come esclusivo obiettivo, pur con qualche rispettabile eccezione, quello dell’occupazione del potere, attraverso cui conquistare o preservare posizioni di rilievo nella società.
Il terreno della contesa è così divenuto quello della promozione e della salvaguardia delle posizioni personali dei protagonisti, politici ma anche magistrati, ciascun gruppo impegnato a captare consenso utilizzando il metodo delle crescenti promesse di protezione rivolte alle rispettive fasce di elettorato, in una sorta di gigantesco voto di scambio che, se promosso da singoli individui, verrebbe considerato come un vero e proprio reato.
Ed è così accaduto che questa nuova atmosfera politica, in cui la società italiana si è trovata immersa negli ultimi 25 anni, ha finito per tracimare anche in un corpo di élite come la magistratura, ove le tradizionali posizioni ideologiche hanno finito per sfumare sino a diventare inestinguibili, cedendo il passo alla logica della convenienza personale del beneficiario dell’intrigo di oggi e del potenziale beneficiario dell’intrigo di domani.
Constatando la trasformazione del CSM in un luogo di compensazione tra gli interessi dei rispettivi protagonisti, anche a chi, come me, ne ha sempre criticato la natura di terza camera parlamentare, vien quasi da rimpiangere un passato che, pur con tutti i suoi difetti, aveva una sua propria nobiltà, nella misura in cui presupponeva divergenze politiche genericamente collegate con quelle che allora si contendevano il governo del Paese.
In questo nuovo contesto, mentre il ruolo del CSM, coi suoi compiti costituzionali, continua ad essere un pilastro fondamentale per garantire la separazione dei poteri (che è caratteristica essenziale di ogni democrazia liberale), e mentre va rispettata la funzione sindacale svolta dall’ANM (posto che gli stessi magistrati sono pur sempre alti funzionari dello Stato), quel che proprio un fuor d’opera è l’influenza che le correnti – in competizione tra di loro quando si tratta di raccogliere il consenso dei magistrati, e poi spesso in spirito consociativo quando invece si tratta di
dividersi le spoglie degli incarichi apicali – esercitano sulle decisioni consiliari, in ciò favoriti dall’abbandono del metodo storico dell’anzianità senza demerito e dalla pratica delle nomine a pacchetto, in cui la composizione delle diverse aspirazioni è resa ancor più agevole.
E siccome non si può vietare a nessuno di «associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale», che è diritto costituzionalmente tutelato, l’unica cosa che si potrebbe fare è quella di rendere irrilevante il ruolo delle correnti nella scelta dei consiglieri togati del CSM.
La riforma del sistema elettorale del 2002 (L. 28.03.2002 n. 44), che aveva immaginato di ridurne l’influenza sostituendo all’originario sistema elettorale proporzionale su liste concorrenti il diverso sistema dei collegi uninominali con elezione in turno unico, ha sostanzialmente fallito lo scopo, perché l’estensione nazionale dei collegi rende quasi impossibile al singolo magistrato di candidarsi con qualche chance di successo senza il supporto di un’organizzazione nazionale che possa veicolarne il messaggio.
Si deve quindi pensare a qualcosa d’altro, e però evitando che assieme all’acqua sporca delle correnti, venga dispersa anche la funzione costituzionale del CSM, che deve continuare ad essere garanzia di autonomia e di indipendenza per tutti i magistrati.
Il metodo che mi sembra migliore sarebbe quello di scegliere per sorteggio i membri togati tra quelli che, nelle rispettive categorie (inquirenti, giudicanti, cassazionisti) si dicano disponibili a concorrervi, e basterebbe a tal fine introdurre una piccola modifica all’art. 104, c. 2, Cost., sostituendo, quanto ai soli magistrati, la parola “eletti” con la parola “scelti”, ferma restando l’elezione dei membri laici ad opera del Parlamento in seduta comune.
La diversità tra sorteggio (per i togati) ed elezione (per i laici) mi sembra ragionevolmente giustificata dalla circostanza oggettiva che i togati sono tutti di elevata preparazione professionale (essendo stati selezionati con un concorso molto rigido), mentre la stessa garanzia non mi pare evocabile per gli avvocati (i cui esami di abilitazione e le cui rappresentanze ordinistiche lasciano spesso a desiderare, sia consentito dirlo a un avvocato come me) e neppure per i professori (le cui selezioni concorsuali sono spesso opinabile frutto di cordate che non premiano i migliori).
D’altra parte, come emerge dalle recenti vicende, sono i togati il problema principale del CSM, anche perché sono i due terzi del plenum, mentre i laici fanno spesso da spettatori, e sono anche più autonomi dai rispettivi partiti di quanto non siano i togati rispetto alle rispettive correnti, come sembra emergere chiaramente dalle vicende di questi giorni, che non vedono coinvolti i membri laici del Consiglio.
Un grande Maestro come Gustavo Zagrebelsky, per il quale nutro il massimo rispetto, scrivendo questo 17 giugno su “La Stampa”, dopo avere rammentato che le correnti della magistratura hanno svolto un ruolo fondamentale nella nostra società in ragione delle differenze culturali un tempo esistenti tra le sue varie componenti nel modo d’intendere l’attività giurisdizionale, riconosce che esse hanno oggi sostanzialmente dismesso quel ruolo e «sono state viste come strumenti di gestione di clientele elettorali», e tuttavia, stronca l’idea del sorteggio qualificandola come «strampalata e incostituzionale».
Convengo sul secondo termine, avendo già ammesso che per introdurlo occorre effettivamente una piccola modifica costituzionale, mentre trovo assolutamente fuorviante il primo, posto che il sorteggio, come afferma lo stesso Zagrebelsky, avrebbe l’effetto di eliminarne del tutto l’influenza, che a me sembra proprio la questione essenziale che oggi andrebbe risolta.
Certo, sapendo che l’appetito vien mangiando, avverto il rischio che un intervento sul Titolo IV della Costituzione possa diventare un cavallo di troia per introdurre qualche ulteriore modifica, questa sì, limitativa dell’autonomia e indipendenza della magistratura.
Basterebbe allora prevedere, con legge ordinaria, che l’elezione dei magistrati di merito avvenga attraverso candidature individuali in collegi territoriali uninominali, senza collegamento correntizio, per magistrati giudicanti e requirenti, parametrati sulla rispettiva numerosità, riservando il collegio unico nazionale ai soli magistrati di legittimità, che, per la notorietà connaturale alla funzione svolta, sarebbero conoscibili anche in assenza di supporto correntizio.
In proposito, ci sono già all’esame della Camera due proposte di legge d’iniziativa dell’on. Ceccanti: il primo (pdl 226-AC) propone il sistema elettorale a turno unico, in cui viene eletto il magistrato che in ciascun collegio abbia ottenuto il maggior numero di voti; il secondo (pdl 227-AC) propone invece il sistema del doppio voto alternativo,
quello in uso in Australia per alcuni parlamenti locali (full preferential vote), per il quale, se nessun candidato consegue la maggioranza assoluta con le sue sole prime preferenze (first best), viene scartato l’ultimo candidato e le seconde preferenze (second best) espresse sulla scheda di questi a favore di altri candidati vengono sommate alle prime preferenze di ciascun candidato rimasto in lizza, e così via sino a che un candidato non abbia raggiunto la maggioranza assoluta.
Per quanto mi riguarda, quello che mi sentirei di proporre è una variante del doppio voto alternativo, quella immaginata da Luigi Einaudi per l’elezione del Parlamento nel suo Lo Scrittoio del Presidente 1948-1953 : un sistema in cui ciascun elettore dispone di due voti, uno principale e uno secondario, e viene eletto il candidato che con le sole prime preferenze conquista la maggioranza assoluta, in mancanza di che si computano anche le seconde preferenze ottenute da tutti i candidati e viene eletto chi ottiene la maggioranza relativa dei voti, insomma un ballottaggio preventivo in turno unico.
Sarebbe questa anche l’occasione per sperimentare, in un corpo ristretto come quello della magistratura, un sistema elettorale che potrebbe essere adottato anche per l’elezione del Parlamento, restituendo ai cittadini il diritto di eleggere direttamente i loro rappresentanti, che risulta di fatto oggi negato dalla vigente legge elettorale.
E si potrebbe anche evitare che, con la scusa dell’emergenza palesata dagli intrighi di questi giorni, l’attuale maggioranza parlamentare provi a mettere le mani sulla magistratura introducendo qualche modifica costituzionale che ne limiti autonomia e indipendenza, mettendola al servizio del potere di turno.
Rivista NON MOLLARE, n 004 del 17 Giugno 2019