Salvo rare, rarissime eccezioni, è dai tempi della guerra britannica all’Argentina per il controllo delle Isole Falkland che i conflitti armati falliscono gli obiettivi che si erano prefissi. Accade più spesso che, in ossequio a quella che i politologi chiamano eterogenesi dei fini e gli antichi greci chiamavano nemesi, le guerre sortiscano effetti radicalmente contrari a quelli voluti. Emblematico il caso ucraino. Prima del febbraio 2022, la Nato era considerata da più d’uno tra i suoi stessi membri un’alleanza moribonda e sostanzialmente fuori dal tempo, da Obama in poi gli Stati Uniti si stavano programmaticamente ritirando dal mondo, l’Europa non era mai stata così affrancata dall’influenza americana.
Poi, il 24 febbraio, Vladimir Putin ebbe la bella idea di invadere l’Ucraina. Doveva essere una guerra lampo; un conflitto finalizzato ad aggiungere un tassello territoriale al redivivo impero russo su modello sovietico, ad ufficializzare la marginalità dell’Alleanza Atlantica, a proiettare l’ombra dell’orso russo su un’Europa ormai sottratta al protettore americano. Non uno di questi obiettivi si è realizzato. Anzi, di ciascuno si è realizzato l’esatto contrario: dopo due anni, la guerra è ancora in corso; l’Alleanza Atlantica non è mai stata così carica di energie e di futuro, tanto da attrarre paesi storicamente neutrali come la Svezia e la Finlandia; gli Stati Uniti si sono parzialmente riappropriati del proprio ruolo storico di gendarme planetario e la vecchia Europa si è ritrovata nuovamente sotto l’influenza politica americana. Un capolavoro. O, meglio, una perfetta eterogenesi dei fini. Qualcosa del genere sembra, anche se è ancora presto per dirlo, accadere oggi in Medio Oriente. Lo suggeriscono almeno quattro dati di fatto. Le centinaia di missili e di droni lanciati dall’Iran sul territorio israeliano hanno provocato un’unica vittima, restituendo di conseguenza alle strutture tecnologiche e di intelligence dello Stato ebraico il prestigio di cui godevano prima della spaventosa debacle del 7 ottobre. L’attacco diretto ha ricompattato la comunità internazionale attorno ad Israele, eclissando almeno per qualche giorno il dibattito sulla presunta sproporzione della reazione israeliana a Gaza. Se, armando la mano di Hamas, l’obiettivo dell’Iran era quello di far saltare il riconoscimento diplomatico di Israele da parte di paesi arabi come gli Emirati, il Bahrein, il Sudan e il Marocco realizzato nell’agosto 2020 dall’amministrazione Trump con gli Accordi di Abramo, l’offensiva iraniana ne ha invece rivitalizzato il senso, tanto da indurre la Giordania a schierare le proprie batterie antiaeree in difesa di Israele e l’Arabia Saudita a mettere a disposizione dello Stato ebraico i propri sistemi radar, come del resto hanno fatto anche gli Emirati Arabi. Osserviamo, infine, che tradizionali alleati di Teheran come Cina, Quatar e Russia non hanno avallato l’iniziativa bellica, preferendo invece lanciare accorati appelli alla moderazione.
Se, come diceva Agatha Christie, tre indizi fanno una prova, in questo caso di indizi ne abbiamo già quattro. Cinque, volendo prendere per buona la testimonianza del palestinese Sami al-Ajrami, il quale su Repubblica scrive che “a Gaza solo il 10% della popolazione pensa che l’Iran sia un alleato affidabile”. Disponiamo, dunque, di materiale sufficiente per ipotizzare che, come la guerra di Putin all’Ucraina, anche la guerra dell’Iran ad Israele sia soggetta a quell’eterogenesi dei fini che, assecondando il capriccio degli dei, tante volte in passato ha scompaginato i disegni e agitato i sonni di una moltitudine di capi di Stato e di governo, democratici o autoritari che fossero.