Poco più di cento giorni, segnati da minacce, ritorsioni e tentativi di sabotaggio delle relazioni internazionali. Tanto è bastato all’amministrazione Trump per sconvolgere il già precario equilibrio dei commerci globali. Poco importa che le paventate politiche tariffarie, a fronte della levata di scudi dei mercati, siano già sottoposte a revisioni e ripensamenti, in un diètro frónt presidenziale che ha del tragicomico. Dazi temporanei, danni permanenti. È questo il rilievo del Fondo Monetario Internazionale, che nel suo periodico aggiornamento sulla congiuntura macroeconomica lancia un chiaro segnale d’allarme: in uno scenario di profonda incertezza, la crescita globale rallenta, e lo fa più del previsto. Il nuovo dato per il 2025 è del +2,8%, in netto calo rispetto al +3,3% stimato appena tre mesi fa, all’insediamento di Trump. Ritoccate a ribasso anche le stime per il 2026, con la crescita ora prevista al 3%, anziché al 3,3%. Senza mezzi termini, infatti, la causa della brusca frenata viene imputata al rigurgito di protezionismo di Washington. L’organizzazione internazionale, in sostanza, certifica che la politica dei “dazi intelligenti” e dai paventati nobili intenti è una mera illusione, destinata inevitabilmente a prolungare e aggravare l’attuale fase di stagnazione.
Il rapporto, aggiornato al 4 aprile, tiene conto dei dazi annunciati dal tycoon a inizio mese, ma non della pausa di 90 giorni decretata il 9 aprile. Tuttavia, il FMI si dice certo che la tregua nella guerra commerciale con il resto del mondo non abbia intaccato le previsioni, per via della contestuale escalation nel conflitto tra Washington e Pechino. Tanto è bastato, infatti, a rivedere a ribasso complessivamente dello 0,8% le stime della crescita globale rispetto ai rilievi dello scorso gennaio. Un dato limpido, nella sua severità, che dimostra in modo incontrovertibile quanto rapidamente le frizioni commerciali possano erodere fiducia e investimenti.
Pensati con l’utopico scopo di proteggere la decantata “sovranità industriale” americana e riportare la manifattura delocalizzata sul suolo statunitense, l’unico effetto realmente sortito dai dazi è una compressione dell’economia che colpisce anzitutto gli Stati Uniti stessi. La stima del FMI per la crescita del PIL americano nel 2025 è infatti scesa al +1,8%, gravemente al di sotto del +2,7% previsto in precedenza e di oltre un punto in meno rispetto al 2024. Aleggia anche lo spettro della recessione, con l’impennata dal 25% al 40% delle probabilità che gli USA vi entrino.
Inevitabilmente, anche la Cina rallenta: la nuova previsione si attesta al +4% per il 2025 e il 2026, mezzo punto in meno rispetto alle precedenti attese. Un dato che testimonia come il conflitto abbia già sortito effetti sistemici e trasversali. La rigidità delle catene globali del valore e l’incertezza regolatoria, infatti, generano un effetto domino che penalizza non solo gli scambi internazionali, ma anche la produttività complessiva. Parimenti, le stime risultano a ribasso anche per l’Unione Europea, sebbene l’imposizione di dazi più “gentili”, per citare l’inquilino della Casa Bianca, sortisca un effetto più contenuto sul rallentamento della nostra economia, che si prevede crescerà di un asfittico 0,8% quest’anno e di un flebile 1,2% nel 2026, contro le precedenti stime che vedevano il PIL aumentare dello 0,2% in più. Una tendenza, tuttavia, che certifica la condizione ormai cronica di stagnazione del continente, incapace di crescere oltre l’1.8% addirittura dal 2017, se si esclude il rimbalzo post-pandemia delle annate 2021 e 2022.
Il 25 aprile, anniversario della Liberazione d’Italia dal nazifascismo, segna anche la ricorrenza di un seminale discorso radiofonico del Presidente Reagan, che già nel 1987 lanciava un monito contro chi si illude di poter “innalzare la bandiera americana in difesa dei nostri mercati”. Ieri come oggi, il rallentamento sincronizzato delle maggiori economie mondiali mette a nudo la miopia delle politiche protezionistiche: pratiche a somma negativa, in cui a perdere sono tutti gli attori in campo. Nessuno escluso.