Il cosiddetto decreto sicurezza è, come spesso è accaduto in passato, un mélange de tout che spazia dai settori dell’immigrazione a quello dell’inasprimento delle pene, all’implementazione dell’efficienza amministrativa fino alla prevenzione e al contrasto di mafia e terrorismo. È facile immaginare che le opposizioni sosterranno che, per tale eterogeneità di motivazioni e di propositi, il provvedimento non è né necessario né tantomeno urgente, e come tale non dovrebbe nemmeno superare il vaglio presidenziale.
È altrettanto facile rispondere che, soprattutto nell’ultimo decennio, sono stati promulgati e convertiti decreti addirittura con efficacia differita (come quello sulla rottamazione dei dirigenti settantenni) che, per definizione, tanto urgenti non erano. La realtà è che questi due requisiti sono oramai quasi presunti, e comunque affidati alla valutazione discrezionale del Governo. Se questa è diventata la consuetudine di produzione legislativa, è presumibile che almeno su questo punto il Quirinale non avrà nulla da eccepire.
Più problematico è invece il vaglio di costituzionalità dove le prerogative del Capo dello Stato sono più incisive, e dove alcuni hanno manifestato perplessità. Noi qui non intendiamo, per ragioni di spazio e di riverenza istituzionale, formulare giudizi di merito. Ci limitiamo a tre considerazioni di opportunità politica e di tecnica legislativa.
Primo. È principio universalmente accettato da tutti gli stati democratici che la cittadinanza, ove non sia acquisita iure sanguinis o iure soli occorre meritarsela. Di conseguenza, come può essere conferita per meriti speciali, cosi può esser revocata per indegnità. Non v’è dunque nulla di strano che il legislatore disciplini questa possibilità; al contrario, sarebbe paradossale che lo Stato, dopo aver concesso ospitalità e assicurato accoglienza dovesse subire, senza reagire, l’ingratitudine di chi risponde con il delitto alla sua generosità.
Secondo, e consequenziale. La disciplina dello status dello straniero e del rifugiato è vincolata al rispetto di norme internazionali. Ma queste sono ben lontane dal prevedere l’automatismo assistenziale che alcuni solidarismi vorrebbero invocare. Il primo interesse dello Stato è tutelare la sicurezza propria e dei propri cittadini, e se questa è compromessa o minacciata da presenze incontrollabili, illegali o addirittura criminose il legislatore ha il diritto, ed anzi il dovere, di porvi rimedio.
Terzo. Questi due sacrosanti principi, quando vengono tradotti in un macchinoso contesto normativo possono tuttavia occultare l’insidia del sospetto di incostituzionalità. Questo perché la nostra Costituzione è così proteiforme e multidimensionale che può essere interpretata, e spesso lo è stata, in modi diversi e contrastanti. Basti pensare che il codice Vassalli è stato più volte travolto e stravolto in molti suoi articoli proprio dalla Corte Costituzionale dove sedeva il suo autore. Non era schizofrenia. Era semplicemente il risultato di un confronto tra sistemi complessi, disomogenei nella tecnica redazionale e nello stesso indirizzo politico. Con il risultato che il nostro processo penale è un meccanismo che spesso disorienta.
Orbene, un intervento presidenziale o una mancata conversione parlamentare per sospetta incostituzionalità sarebbero un rischio tanto più reale quanto più il provvedimento è articolato e onnicomprensivo. E poiché questo decreto, come abbiamo visto, lo è in modo corposo, il Governo dovrebbe porvi particolare cautela, perché una sua bocciatura, anche parziale, rischierebbe di travolgere, o di rallentare, una riforma che lo stesso Governo ritiene essenziale. I segnali che si colgono tra Viminale e Quirinale sembrano andare verso una soluzione positiva. L’auspicio è che, almeno nel futuro, i decreti legge siano più contenuti, più omogenei e anche più chiari, non solo nell’interesse della certezza del diritto, ma della stessa strategia innovatrice di chi li propone.
Carlo Nordio, Il Messaggero 25 settembre 2018